L’Eccellentissima e Lamentevolissima Tragedia di Romeo e Giulietta compie 425 anni.
“Due famiglie, nobili al pari, nella bella Verona, ov’è la scena, per antica rivalità, rompono in una nuova lite, e sangue dei cittadini imbratta le mani di cittadini. Dai lombi fatali di questi due nemici toglie vita una coppia d’amanti avventurati, nati sotto maligna stella, le cui pietose vicende seppelliscono, mediante la lor morte, la guerra d’odio dei loro genitori […]”.
Queste le parole del prologo della famosissima tragedia di William Shakespeare “Romeo e Giulietta”, pronunciate dal coro non appena si apre il sipario.
La loro storia d’amore trascende il tempo e ci affascina, malgrado siano trascorsi ben 425 anni dalla prima volta in cui è stata messa in scena a teatro, il 30 gennaio 1595.
Shakespeare si fece ispirare, probabilmente, dal mito di Piramo e Tisbe, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi: due giovani pazzamente innamorati, costretti a mantenere nascosto il loro amore dall’inimicizia reciproca delle loro famiglie.
In entrambe le storie i personaggi compiono un gesto fatale, dopo essere stati tratti in inganno da una serie di sfortunati eventi.
A dispetto, quindi, del fatto che le vicissitudini del loro amore non siano propriamente originali, Romeo e Giulietta sono due personaggi entrati a pieno titolo nell’immaginario collettivo.
Dire Straits, Čajkovskji, Prokof’ev, Buz Luhrmann e Francesco Hayez sono solo alcuni degli innumerevoli artisti che hanno tratto a piene mani dalla narrazione shakespeariana del loro amore disgraziato.
Schiere di donne attraverso i secoli hanno desiderato almeno una volta di pronunciare le parole di Giulietta e di sentirsi rivolgere quelle di Romeo nella II scena del II atto; la scena del balcone.
Lei affacciata che snocciola i suoi sentimenti alla luna, lui nascosto che ascolta le sue preghiere e le risponde con un voto d’amore indissolubile.
Giulietta: “Romeo, Romeo perché sei Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo nome. Ovvero, se proprio non vuoi, fa soltanto di legarmi a te con un giramento d’amore ed io non sarò più una Capuleti […] Che cosa c’è poi in un nome? Quel che chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo d’un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo. […] Rinunzia dunque al tuo nome Romeo ed in cambio accogli tutta me stessa” […].
Romeo: “Ti prendo in parola: chiamami soltanto amore ed io sarò ribattezzato”.
La passione che trasuda dai versi non può che rimanerci addosso e farci sognare.
Due anime affini, innamoratesi al primo sguardo, che preferiscono mettere fine alle loro vite pur di non trascorrere neanche un minuto di più senza l’altro.
L’amore che unisce Giulietta e Romeo è cieco e totalizzante; risplende di una luce accecante e si spegne rapidamente; come lo stesso Shakespeare fa dire a Frate Lorenzo: “Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si distruggono al primo bacio”.
L’immortalità di questa storia, divenuta ormai la storia d’amore tragica per antonomasia, è dovuta alla capacità di Shakespeare di trascinare il lettore-spettatore in un vortice di forti ed opposte passioni, di voti solenni, di inganni e congiure, stregandolo.
Persino nell’unico fugace momento di spensieratezza dei due personaggi, si coglie l’alone poetico di una imminente e tragica fine.
Giulietta: “Vuoi già partire? Il giorno è ancor lontano: era l’usignolo e non l’allodola, a ferir del suo canto il cavo dell’orecchio tuo trepidante nell’attesa. Esso canta a notte sul quel melograno laggiù. Credilo, amore: era l’usignolo”.
Romeo: “Era l’allodola, l’araldo del mattino; e non già l’usignolo. […] Debbo partire e vivere, o restare e morire”.
Chiudo con le parole del Principe di Verona: “D’una tetra pace è foriero il mattino, e il sole, per l’afflizione, non vorrà mostrare il suo volto. Andate pure, e dibattete ancora fra voi le ragioni di questi tristi casi. Taluni saranno perdonati, puniti talaltri. Perocché non vi fu mai alcuna storia più dolorosa che questa di Giulietta e del suo Romeo”.