Di Marilù Greco
Una delle poesie più evocative e suggestive di Carducci e, forse, anche la più ingiustificatamente sottovalutata alle superiori è la commemorativa “Davanti San Guido”che l’autore scrive proprio in occasione di un suo viaggio in treno per tornare a Bologna. Durante il viaggio, il poeta rivede i luoghi dell’infanzia, cioè passa per il cuore della Maremma toscana e, con una prosopopea, descrive i cipressi alti e schietti, rievocativi del periodo della sua infanzia che lo implorano di scendere dal treno e rimanere con loro nella sua terra natia. Quasi con un sapore di amara malinconia, Carducci, nei suoi versi, riporta le implorazioni dei cipressi che, balzatigli incontro, gli chiedono: “Perché non scendi? Perche non restai? fresca è la sera e a te noto il cammino”, così Carducci scrive i versi che rappresentano l’emblema della paura di cambiare.
Quanti di noi di fronte alla prospettiva di cambiare lavoro hanno sentito una voce simile a quella dei cipressi di Carducci che suggeriva di rimanere? Un rimanere, che non necessariamente deve essere collegato a un luogo o a un posto, ma che, molto più frequentemente, fa riferimento a una situazione di stasi e immobilità generale. Rimanere, quindi, vuol dire cristallizzarsi in una situazione, che, sebbene, sappiamo essere non adatta a noi o non più opportuna, a causa di un fisiologico e incessante trascorrere del tempo, è quella che ci garantisce più serenità. Questo, perché il futuro e tutto quello che è incerto e indefinito ci spaventa. Prendere scelte è quello che terrorizza la maggior parte di noi, perché si pensa sempre alla possibilità di fallire, senza comprendere, peraltro, che ogni scelta è una scommessa che molte volte, vale la pena, anzi, è necessario adottare. Arrestarsi alla necessità di cambiare perché si ha paura è come nuotare contro corrente: vano, faticoso e inutile, perché il cambiamento è una corrente che avvolge la nostra intera vita e che, quindi, si deve accettare. La staticità, il restare imprigionati in scelte per paura di rischiare ci rende assimilabili alla condizione che Carducci chiama di ”asino bigio” che “rosicchiando un cardo rosso e turchino, non si scomodò: tutto quel chiasso ei non degnò di un guardo e a brucar serio e lento seguitò”. Da qui emerge tutta la drammaticità di restare in una situazione simile e di perdere quella vaporiera fuggente, che certo, a volte comporta sacrifici non facili, ma anche grandi soddisfazioni e prospettive di crescita personale.
Inevitabile, soprattutto per chi non ha la fortuna di vivere nella propria città, con i propri familiari, è, al momento del ritorno, pensare a questa intramontabile poesia. Inevitabile non provare, passando dai luoghi dell’infanzia uno strano senso di malinconia, nostalgia e, forse, anche un po’ un senso di angoscia, accompagnata ad una riflessione. Di fronte alle implorazioni dei cipressi Carducci dolorosamente risponde: “Ma cipresseti miei lasciatem’ire: or non è più quel tempo e quell’età”. Il paesaggio e tutti i luoghi dell’infanzia, sono rimasti immutati eppure si nota qualcosa di strano, di diverso: magari quel posto è meno grande di come me lo ricordassi oppure quel particolare lì in fondo c’ è sempre stato? In effetti qualcosa di diverso c’è: Noi.