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White Privilege tra storia, pregiudizi ed inclusione

A seguito della morte di George Floyd, il 25 maggio 2020 a Minneapolis (Minnesota), migliaia sono state le proteste che si sono susseguite non solo negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, Germania, Francia, Danimarca, Brasile, Messico, Irlanda, Nuova Zelanda, Canada, Polonia e Italia.

In alcune proteste sono state abbattute le statue di chi ha colonizzato, depredato e fatto schiave popolazioni indigene, e ciò ha sicuramente dato uno scossone alle società attuali per il forte messaggio di condanna alla storia.
Tra le varie richieste di presa di coscienza e solidarietà condivise nelle strade e sui social e di supporto a #blacklivesmatter, ce n’è una in particolare, a lungo ignorata, ora arrivata come un uragano: il “white privilege”.
Alla lettera “privilegio bianco”, si tratta di un vantaggio ancora attuale in alcune società, e di cui godono soltanto coloro che hanno la pelle bianca, in ambito politico, economico e sociale. Ciò è frutto di un sistema invisibile e parziale che dà più opportunità ai bianchi, non per meriti o qualifiche, ma per il mero aspetto esteriore. Essere classificati come “bianchi” crea un senso di disagio.
Non ho mai pensato che la mia persona fosse collegata ad un gruppo etnico, non mi sono mai sentita bianca, non ho mai parlato a nome dei bianchi o rappresentato la mia “categoria”. E voi?

La scienza insegna che tutti gli esseri umani hanno in comune grande porzione di genoma, vale a dire che il colore della pelle è un insieme di colori e di rimescolamento di geni, per cui la razza è un’invenzione degli uomini. Eppure, molto spesso, i neri rappresentano e parlano a nome di tutti i neri, e grandi esempi di ciò sono stati Martin Luther King Junior, Rosa Parks, Malcolm X e Barack Obama.
Tuttavia, mentre quando si fa riferimento al razzismo, il concetto è immediato in quanto si ricollega a intolleranza, xenofobia, rifiuto dell’altro perché diverso, perché altro, il white privilege è complesso da cogliere.
Parlare oggi di white privilege è scomodo, in quanto significa far luce su privilegi che sono andati avanti indisturbati per secoli, ed anche di pregiudizi.
Tutti noi siamo esposti costantemente a stereotipi imposti dalla società, da quello che vediamo, sentiamo o leggiamo. Di alcuni pregiudizi siamo vittime, di altri siamo artefici, ma molti si trovano nel subconscio… ma come riconoscerli?

L’Implicit Test Association dell’università di Harvard è un test online che aiuta a comprendere le proprie attitudini verso le persone appartenenti a determinate categorie e se si hanno degli atteggiamenti di preferenza. Oltre che sul colore della pelle, ce ne sono altri sul peso, sulle disabilità, sull’età, sul sesso in relazione alla carriera. Per esempio, quante volte alcune professioni vengono ricollegate ad un determinato sesso: calciatore, fabbro, macchinista, pilota…? Quante volte abbiamo sentito dire: è troppo giovane o troppo vecchio? Questi test non forniscono una certezza matematica, ma una previsione dei propri pregiudizi inconsci in base alle associazioni che si fanno.

La cultura dell’inclusione rimane l’arma migliore contro i pregiudizi e i privilegi.
Dialogare con le persone, soprattutto con coloro che provengono da luoghi diversi dai nostri, che hanno visto cose diverse, avuto esperienze di vita diverse, e chieder loro della realtà che vivono, porterà non solo ad aprire i nostri orizzonti, ma a capire noi stessi. Bisogna sapersi mettere nei panni dell’altro per capire se due persone abbiano ricevuto uguale o diverso trattamento. White privilege oggi significa aver la capacità di accorgersi di ciò di cui non ci si è mai interrogati: come sarebbe stata la mia vita se la mia pelle avesse avuto un colore diverso?

La storia non può essere cancellata, ma le mentalità possono ancora essere scardinate. L’empatia porterà un cambiamento rendendoci persone migliori, più eque, più umane.

Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud di lunedì 15/06/2020

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