Se anche voi come me avete visto e rivisto Lost in translation senza mai riuscire a trattenere le lacrime, se siete affascinati dall’eleganza e dall’unicità di una cultura che è rimasta isolata per troppo tempo e ha conservato la sua originalità, se desiderate da sempre un viaggio in questa terra che disorienta coi suoi colori, le luci e i grattacieli, i contrasti tra modernità e tradizione, con le sue scritte incomprensibili… allora partiamo insieme per un viaggio (virtuale) in Giappone 😉
Nella sterminata capitale del Giappone, che è luci, insegne e caos, ma anche tanto altro, vivono ben 12 milioni di abitanti. Non per niente Sophia Coppola ha scelto di ambientare un film sullo straniamento e l’incomunicabilità a Tokyo, città enorme dove le strade non hanno un nome e perdersi è molto facile. Tokyo vive in bilico tra treni futuristici che viaggiano a 300 km orari e tempi zen, locali di videogames e karaoke e palazzi imperiali, statue di robot e Godzilla giganti e il monte Fuji serafico e innevato. E’ un frullatore di luci, megaschermi, canzoncine che escono pure dai tombini e signorine che sembrano Manga.
Si dice che la prima cosa che colpisce di Tokyo è l’odore che la pervade: acre, misto di pesce, alghe e riso cotto. Ti stordisce, quasi ti nausea, ma poi finisci col non percepirlo più. Pesce, alghe e riso sono gli ingredienti del sushi, il piatto tipico giapponese che ha conquistato l’occidente. A Milano il sushi è diventato uno stile di vita e i ristoranti giapponesi spuntano come i funghi ad ogni angolo della città. Guardando il documentario Jiro e l’arte del sushi, disponibile su Netflix, tuttavia, si capisce quanto il vero sushi sia lontano dalla realtà degli all you can eat nostrani. Una vera e propria arte, alla ricerca dell’”umami”, il quinto gusto. Umami letteralmente significa “buon gusto” ed è un sapore che corrisponde al saporito, alla sapidità. Il più grande shokunin di Tokyo spiega come la sua intera vita sia stata votata al lavoro e alla ricerca della perfezione, che emerge in tutte le fasi della preparazione, dalla scelta dei fornitori di riso e pesce, alla preparazione degli ingredienti (il polpo, per esempio, viene massaggiato a mano per 40 minuti “per renderlo più morbido”), dalla preparazione dei coperti (solo 10, tutti al banco, sotto l’occhio vigile di Jiro), fino alla realizzazione del sushi che avviene con movimenti sicuri e precisi, sempre gli stessi. Esiste addirittura una precisa sequenza che impone come servire le pietanze, i sapori più forti vengono serviti alla fine del pasto e le signore ricevono porzioni leggermente più piccole, per fare in modo che i commensali finiscano insieme.
Città moderne e innovative nascondono giardini zen, laghi di ninfee e ciliegi in fiore; le strade iperaffollate raccolgono l’umanità più varia: un esercito di lolite, punk e personaggi che sembrano usciti dai cartoni animati (giapponesi), cammina ordinato e silenzioso. Così mi aspetto il Giappone: l’armonia nel caos. Kyoto, l’antica capitale, offre scenari da “Memorie di una geisha”, santuari e templi spettacolari, con i torii arancioni che formano lunghe e suggestive gallerie, e una magica foresta di bambù.
Infine, Miyajima, l’isola in cui convivono uomini e dei, uno dei posti più suggestivi del Giappone, con la famosa Porta di Ootorii in legno di canfora verniciato di rosso che si erge sontuosa in mezzo al mare, raggiungibile a piedi con la bassa marea. E i daini che, per niente impauriti dai turisti, girano per l’isola e si fanno accarezzare e sfamare da avventori divertiti.
In attesa di partire e poter assaggiare quello di Jiro, mi godo il mio sushi a Milano e vi consiglio la mostra “Daido Moriyama in Color”, alla Galleria Sozzani fino al 6 Gennaio, in mostra frammenti di realtà catturati nei vicoli bui e stretti di Tokyo. Arigatò!