Versicoli quasi ecologici

13.08.19

Il mare mi osserva e controlla da lontano, proprio come un padre tiene d’occhio i suoi figli pestiferi nelle ore di gioco. Questa figlia, però, è ormai cresciuta, e come accade tradizionalmente in un rapporto genitori-figli, relazione in cui ad un certo punto i ruoli si invertono, sono io che mi sento in dover di tenerlo sotto controllo per salvarlo dalle crudeli mani dell’uomo. Questa mattina, sfogliando qualche libro di letteratura di mia nonna – spasmodicamente gelosa dei sui volumi – e cercando invano di non farmi scoprire con le mani nel sacco, mi sono per caso imbattuta in una lirica di Caproni, e ho riflettuto sul valore inestimabile della natura e sul rapporto che l’uomo ha con la stessa.

 Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: “Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra”.

 “Versicoli quasi ecologici” fa parte della produzione matura di Giorgio Caproni, della raccolta “Res amissa” ovvero “Cosa Perduta”.
Il suo contenuto può essere automaticamente ricollegato al titolo della raccolta in cui lo stesso componimento è contenuto: infatti, “Cosa perduta”, derivante dal latino “Res Amissa”, è espressione della sconfitta dell’uomo, il quale, con i suoi comportamenti e le sue velleità parassitarie, distrugge l’armonia che lo lega alla natura perdendo, di conseguenza, il legame fiduciario con la “res”, la nostra naturalità, per perseguire fini irrisori e – come lo stesso autore dice – “vili”. Il testo, invero, partorito durante la fase di maturazione della sua poetica, capovolge il binomio natura-uomo ponendo l’ultimo sullo sfondo e la prima come protagonista, sconvolgendo le dinamiche tradizionali della poesia idilliaca che da sempre – si ricordi come emblema la poetica di Leopardi, espressa nei Piccoli Idilli – ha incentrato la sua tematica sulla natura in quanto tale. Il tema centrale della lirica, nello specifico, esalta la natura come una “res” in pericolo per colpa della stoltezza umana, e come tale perduta nel senso più profondo, perduta come concetto e come valore, perduta come modo di vivere. 
Non a caso, nel finale troviamo un appello, quasi senza speranza, dell’autore, che idealmente conclude la sua “invettiva” contro chi approfitta della natura per i suoi scopi, e dopo aver elencato ciò che va salvato, fra tristezza e rassegnazione sospira:


Come potrebbe tornare a esser bella la terra, senza l’uomo“.         

Caproni probabilmente considerava la poesia come ricerca vana ma ininterrotta di cose che un tempo appartenevano all’uomo e a quella civiltà contadina che lo stesso autore aveva avuto modo di conoscere nei primi decenni del ‘900.
Ecco che chi legge – o almeno io così ho pensato – desume che fra le cose perdute che il poeta richiama con nostalgia emerge proprio lo sfruttamento equilibrato e rispettoso dell’uomo sull’ambiente. Secondo l’autore l’equilibrio Uomo – Natura è stravolto principalmente dall’uomo che si crede immune da qualsiasi conseguenza innescata dal proprio agire.
La specie umana è la sola in grado di costruire il proprio suicidio collettivo e, deturpando la natura, l’uomo distrugge se’ stesso in un atto presuntuoso e irresponsabile. Questa è la differenza fra la specie umana e la natura: mentre noi, uomini, abitanti della terra, necessitiamo della natura seppur – da vili – la deturpiamo in ogni sua forma, al contrario, la natura non avrebbe bisogno dell’uomo per vivere. La suddivisione in due strofe della poesia è funzionale al messaggio che l’autore vuole tramandare: infatti, nella prima parte vengono descritti tutti i comportamenti devastanti e devastatori in cui si palesa la criminalità dell’uomo, ai quali l’autore correla dei diretti consigli sotto forma di divieti “non uccidere, non soffocare” e si conclude una disperata richiesta di coscienza per la comunità quando dice di non emergere a paladino di verità, ad esempio di correttezza, chi “fulmina per profitto vile”.
Nella seconda parte, invece, vi è la disperazione del poeta, che, regalandoci un’immagine pittoresca, descrive il panorama distrutto della natura e ci lascia con un quadro ipotetico in cui la natura ritorna ad “esser bella” senza l’uomo che d’agguato la tormenta.
Più nello specifico, nella prima parte della lirica il poeta descrive i comportamenti dell’uomo che sono disdicevoli e contrari alla vita della natura circostante. Uccidere, soffocare, fulminare: con questi tre verbi il poeta esprime il sentimento di ripudio che nasce nell’uomo nei confronti della natura. Ripudio che nasce dall’esigenza di trarre profitto da ciò che al posto della natura potrebbe sorgere, o da ciò che dalla natura (piante e animali) potrebbe derivare.
 L’uomo quindi non vede più nella natura un’amica e un’alleata ma una mera fonte di guadagno. 
La ragione per cui l’uomo agisce in questo modo è, secondo il Caproni, un “vile profitto”: motivo scatenante di tale comportamento è quindi il desiderio di trarre indebito vantaggio dallo sfruttamento compulsivo dei frutti della natura, che senza rispetto, vengono strappati alla loro madre. Nei versi 7-9 del componimento, il poeta recita “E chi per profitto vile fulmina un pesce, un fiume, non fatelo cavaliere del lavoro”: da queste parole emerge lo sdegno e la critica che il Caproni esprime nei confronti della società, la quale si fa protagonista di un male ancor peggiore rispetto all’istinto distruttivo-approfittatore decantato e criticato con amarezza e disprezzo nei versi precedenti. 
L’autore rivolgendosi alla società, critica chi fa “cavaliere del lavoro” l’uomo sterminatore, chi crede che tali atteggiamenti siano giusti e quindi da emulare perché – a parer di molti – portano al progresso della società e al miglioramento della stessa. Gli ultimi tre versi della lirica esprimono un concetto fondamentale della poetica del Caproni: l’uomo, seppur intrinsecamente legato alla natura e ai suoi frutti – dai quali è ontologicamente dipendente-, preferisce distruggerla piuttosto che prendersene cura; al contrario, la natura può vivere svincolata dal rapporto con l’uomo, anzi probabilmente, secondo l’autore, con la scomparsa dell’uomo la terra potrebbe tornare a fiorire e a brillare di luce propria; potrebbe, come lo stesso recita, “tornare ad essere bella”. 

Trattasi di un componimento ormai lontano dai giorni nostri ma ahimè incredibilmente attuale: io, dall’alto del mio balcone, osservo la distesa blu che ho di fronte agli occhi e mi inalbero se penso alla plastica che galleggia nelle nostre acque, se penso al volontario disboscamento, agli incendi appiccati e a tutti quegli accorgimenti che potremmo prendere per salvare il pianeta e quindi noi stessi. 
Proprio in questi giorni l’Amazzonia sta bruciando, i polmoni verdi vanno a fuoco e la natura viene rasa al suolo. Anche la Siberia, una distesa infinita di terre e foreste, è ormai andata distrutta.
Perché? Cosa c’è davvero sotto che conduce la politica mondiale ad ignorare questi forti campanelli d’allarme?
Chi ci salverà quando imploderemo? Quando ci mancherà l’aria, quando non avremo più un goccio d’acqua, quando letteralmente moriremo per il troppo caldo? Ci salverà forse il dio danaro?
Gli interessi economici sottesi all’esistenza delle specie umana sono una vergogna per la stessa umanità. E se non ci svegliamo, se continuiamo ad osservare la disfatta delle nostre esistenze e della nostra Terra, ebbene allora si, ce lo meritiamo.

Dimentichiamo troppo spesso che siamo un tutt’uno con il nostro pianeta: la terra non è la nostra fonte di ricchezza, la terra è la nostra linfa vitale.
Al contrario, abbiamo dato il via ad un neppur troppo lento procedimento di eutanasia consapevole e letale, da cui non si può tornare indietro. E’ proprio vero che  “Chi resta sospira nel sempre più vasto paese guasto”: in questo verso il poeta definisce come guasto il mondo integralmente deturpato dall’uomo. L’alterazione e la rovina della terra sono conseguenze dirette dei comportamenti umani che distruggono l’essenza della natura. L’amore che dovrebbe essere sentimento primordiale e essenza del rapporto uomo-natura perde forma nel momento in cui “finisce l’erba e l’acqua muore”. La terra rimane sprovvista di ciò che produce e di ciò di cui si alimenta lasciando un deserto intorno agli uomini. Il “più vasto paese guasto” infatti è espressione del vuoto e della distruzione del pianeta che è sempre di più in via di “espansione” (usando un ossimoro, giacché rappresenta il contrario di una espansione in senso stretto). Ciò che rimane nel cuore di chi resta e ciò che si legge nei loro occhi è un meor sospiro in cui si evince un nostalgico legame d’amore originario con Madre Natura. Il sospiro, infatti, è tipico di chi soffre e di chi non ama la situazione in cui si trova, e diviene, quindi, espressione di disagio e, in fondo, anche tristezza. 

Madre natura ci ha dato la vita e noi la stiamo uccidendo, figli ingrati e ribelli. Ma è come ho detto all’inizio, in ogni relazione genitore-figlio c’è, dopo un momento di scontro, il ritorno all’amore e l’inversione dei ruoli di tutela: speriamo di ritornare ad amare la nostra Mamma per salvarci, insieme, da un ineluttabile destino.