Unorthodox: e se la vera vittima non fosse Esty?

Se Unorthodox è la serie TV che stavate aspettando per giustificare il vostro disprezzo per ogni esemplare umano di sesso maschile, rimettetevi il reggiseno, riponete i picconi, ripartite dal primo episodio e premete play. E dimenticate anche chi vi ha parlato della nuova bimba di casa Netflix, chiaramente incentrata sulla fuga della diciannovenne Esty Shapiro dalla sua comunità ultraortodossa chassidica di Williamsburg, Brooklyn. Perché l’unica cosa realmente chiara di Unorthodox è che quello è solo l’inizio: il cuore è tutta un’altra storia.

“Il Talmud dice: ‘Se non io, allora chi? Se non ora, allora quando?’”

In questa frase si racchiude la trama di base del nostro racconto tratto da una storia vera. Lo spirito religioso alla base delle due domande indica che chi se le pone deve ricordare di restare fedele al proprio io per trovare Dio senza lasciarsi trascinare da ciò da cui è circondato. Per questo, la comunità chassidica di Esty abbraccia in tutto e per tutto quotidianamente questa necessità di vivere nella grazia di Dio, nel forte tentativo di replicare gli schemi superficialmente patriarcali atti a preservare la comunità sotto ogni punto di vista (storico, culturale, sociale).

Ad oggi, però, quel “se non ora, allora quando?” è stato manipolato nella sua essenza, passando di bocca in bocca e di penna in penna nel tentativo di dare giustizia all’idea di opporsi ad un predeterminato status quo. È seguendo questo spirito che, apparentemente, si scioglie la trama del telefilm, fatto di un presente in cui Esty scappa dai suoi doveri verso la comunità per soddisfare i doveri nei confronti di se stessa, imparando sulla propria pelle che le due cose non sembrano poter convivere. Ciò che desidera la sua comunità non è ciò di cui lei ha bisogno e viceversa.

Oggi però non ho intenzione di seguire né il primo, né il secondo filone. Come per tutte le cose del mondo, credo fermamente che la verità giaccia sempre nel mezzo, così come fa la vera trama di Unorthodox. È troppo semplice puntare il dito sulla base dei flashback di Esty contro un’intera comunità religiosa solo perché una mente contemporanea cosiddetta occidentale non è in grado di processare abitudini e rituali ad essa estranei; anzi, scacciamola una volta per tutte questa sindrome da crocerossina.

E, del resto, sarebbe anche fin troppo facile credere che la storia sia solo quella di una ragazzina che all’improvviso scopre l’ebrezza dell’indossare un paio di jeans e dell’andare a ballare in un locale tecno dopo essersi truccata le labbra con un bel rossetto rosso chiamato ‘Epiphany’ (lett. ‘epifania’, da intendersi banalmente come risveglio o presa di coscienza).

Riavvolgiamo il nastro e concentriamoci sulla figura più disprezzata da chi ha visto Unorthodox con un velo sugli occhi: l’uomo. E se vogliamo essere più specifici, concentriamoci esattamente su Yanky, marito di Esty e coprotagonista di queste quattro puntate. E vi dirò di più, inquadriamolo mentalmente in un momento per lui fondamentale: la preghiera. Vediamolo nella nostra mente mentre oscilla pregando, in un moto continuo, inquieto, elegante e confuso come viene chiesto agli ebrei di pregare, muovendosi senza dimenarsi, sicché la loro anima è considerata fiamma divina che si alza ardente come una candela nell’oscurità che si agita.

Tutti puntano i riflettori su Esty: fin dal primo frame della prima puntata, dimostra di aver già capito quale strada vuole prendere ed i suoi flashback ci aiutano a capire come una ragazza così devota alla sua comunità subisca un cambiamento così radicale, mutando nel pensiero e nelle azioni e infine assecondando desideri che in realtà erano sempre stati presenti dentro di lei. Yanky è, invece, colui che muta senza realmente cambiare. In ogni episodio, lui subisce una sfilza di prese di coscienza che non gli danno coraggio ma, al contrario, lo fanno sprofondare in uno stato confusionario sempre più profondo, infelice, disperato.

Yanky ha vissuto tutta la sua vita immerso in un mondo che, su carta, pretende che l’uomo incarni una serie di valori imprescindibili nella corsa verso la rettitudine. Deve essere un ottimo padre e marito, prendersi cura della propria famiglia, mantenere moralità e integrità intatte. Sembra quindi che il momento in cui Esty fugge da Williamsburg per andare a Berlino nel primo episodio e quello in cui comunica al marito di non voler più stare con lui proprio a fine stagione siano gli unici due istanti in cui a Yanky crolla il suo mondo ovattato addosso.

Eppure, a ben riflettere, a mano a mano che la storia si infittisce si può vedere chiaramente che le certezze di Yanky relative al suo ruolo e posto nel mondo non sono state compromesse da Esty in sé e per sé, ma piuttosto da tutto il contorno di personaggi che li circonda. Il cugino di Yanky, Moishe, che lo accompagna in Germania alla ricerca di Esty, è dipendente dal gioco d’azzardo, per cui in passato ha abbandonato moglie e figlio, i quali ora non vogliono più avere a che fare con lui; la madre di Yanky, che in quanto donna dovrebbe avere un ruolo da sottomessa remissiva stando alla lettura apparente del binomio uomo-donna del mondo di Williamsburg, è in realtà colei che tira le redini del rapporto coniugale tra il figlio e la nuora, portando Yanky a chiedere il divorzio a Esty il giorno prima in cui lei decide di fuggire; finanche il padre di Esty, ubriacone che non si è mai preso cura della sua famiglia, rompe gli schemi stereotipati del padre padrone.

Certo, come dice il rabbino Yossele, figura apparentemente patriarcale per eccellenza nel telefilm, “un ebreo, anche se ha trasgredito, resta un ebreo”. Ma cosa resta di una identità che trasgredisce? Yanky non lo sa, non lo comprende, la sua mente non riesce a processare né il quesito, né la moltitudine di risposte che potrebbero corrispondervi. Per questo, anche nelle scene in cui non prega e resta immobile, dona al pubblico la sensazione che il suo corpo sia inquieto, tanto quanto la sua anima e la sua mente; che tutto oscilli, senza seguire un disegno o uno schema, alla cieca.

E forse è questa la parola che stavamo cercando. Yanky è cieco, molto più di Esty: non di fronte ad un’unica verità o ad un’unica definizione di ‘giusto’ e ‘sbagliato’, quanto piuttosto alla moltitudine di realtà che abbracciano infinite verità e infinite cose giuste e sbagliate.


Perciò, se si preme di nuovo play, si può vedere che Esty e Yanky sono solo la risposta generazionale confusa ma non opposta a questa realtà che quasi mai corrisponde agli schemi di genere su cui sembra essere cucita. Ma se ora dobbiamo giocare alla vittima e al colpevole, allora ricordiamo che qui la vittima è Yanky e tutte le persone che, come lui, vivono nella confusione più profonda del non trovare punti di riferimento reali che corrispondano alle aspettative in loro riposte e, confusi, non riescono a risollevarsi; come invece riescono a fare le altrettante persone che somigliano ad Esty, che pur non avendo tutte le risposte, hanno il coraggio di mettersi in discussione e porsi le giuste domande.

Ed il colpevole, alla fine, è ognuno di noi, bravo a giudicare ed incapace di andare oltre.
Del resto, “Dio forse si aspettava troppo da me.”

Crediti dell’immagine in evidenza: https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2020/04/18/unorthodox-etsy-la-cenerentola-yiddish_fd5de5ea-53f9-41ae-8688-88c53e7ae532.html