La lenta e difficile ripresa delle attività produttive dopo la fine della fase acuta della pandemia rende ancor più evidente il dramma della disoccupazione giovanile nel nostro Paese, dove i ragazzi sembrano sempre più preda della precarietà e dell’incertezza. I dati degli ultimi mesi sono inequivocabili: il nostro è un Paese che investe poco sulle nuove generazioni, che nella maggior parte dei casi entrano tardi e con stipendi troppo bassi nel mondo del lavoro.
Ma vediamo i dati: secondo l’Istat, l’Italia è penultimo Paese in Europa per numero di laureati tra i 30-34 anni, preceduto solo dalla Romania.
Questo è un elemento da tener in considerazione se pensiamo che sempre l’Istat ci dice che un alto livello d’istruzione come la laurea garantisce un miglior livello di occupazione, pari a+ 16 %; le donne, poi, hanno il triplo di possibilità di trovare lavoro, anche al Sud, rispetto a chi ha solo il diploma.
Nonostante questo, l’Italia continua a investire poco in Alta Formazione e in formazione tecnica, come certifica anche il rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, curato dal demografo Rosina.
Per invertire questa tendenza c’è bisogno di un cambiamento culturale, radicale, che metta al centro dell’agenda politica e sociale i giovani e il loro futuro.
Un cambiamento culturale implica dare loro fiducia, nonostante la poca esperienza, e vuol dire dare loro i mezzi economici che permettano loro di esprimersi al meglio.
Cambiamento, poi, vuol dire pensare ai giovani come una risorsa, a cui affidare il futuro del nostro paese, e che i ragazzi devono avere la libertà di plasmare secondo strade nuove che solo loro potranno percorrere.
Che l’Italia sia un Paese che “non si fida” dei giovani lo conferma anche un recente rapporto Censis, secondo cui tra il 2007 e il 2017 circa 775 mila italiani hanno lasciato il nostro Paese, la maggior parte sotto i 40 anni.
Dobbiamo precisare che la volontà di superare i nostri confini non è di per sé negativa: è anzi sintomo di una grande voglia di esplorare e scoprire il mondo, di voler lasciare le proprie certezze e sperimentare; il guaio sta nell’impossibilità spesso di tornare, se non al prezzo di perdere quelle posizioni, magari di prestigio, guadagnate all’estero.
Chiudiamo con l’ultimo rapporto di Union Camere che, su un campione di un milione e mezzo d’imprese, un’azienda giovanile su 3 chiude i battenti nei primi 5 anni di vita e di queste quasi la metà non supera il biennio. Il risultato è che in otto anni si sono perse 122 mila imprese “under 35”, portando a quota 575mila l’esercito delle iniziative imprenditoriali guidate da giovani.
D’altro canto nel rapporto Union Camere 2019 è scritto che all’inizio dell’anno scorso le startup in Italia sono arrivate a 10.882 in aumento di circa 272 unità rispetto al trimestre precedente: il 73 , 3 % di queste fornisce servizi alle imprese, in prevalenza nel settore informatico; seguono poi fabbricazione di macchinari ed elettronica. Poca invece la formazione tecnica, bassi gli investimenti in ricerca e sviluppo, sottolinea Rosina, curatore del rapporto giovani.
Il direttore di Union Camere Angalli ribadisce:“Ai giovani piace ancora fare impresa anche se crescono le difficoltà. Ma quando riescono a superare la fase di avvio, i giovani “under 35” sono più resistenti rispetto agli altri imprenditori”.
Per invertire la tendenza, Unioncamere e Smart Future Accademy presieduto da Adriana Lilli Franceschetti, hanno firmato un protocollo d’intesa per un progetto di collaborazione con le scuole superiori, per avviare dei percorsi di formazione e orientamento mirati al mondo del lavoro.
C’è bisogno infatti che i giovani siano da subito messi alla prova, messi di fronte alle difficoltà e alle opportunità che devono saper cogliere per poter navigare più agevolmente nel mare sempre più inquieto del nostro mondo.
Già pubblicato su Quotidiano del Sud – L’altravoce dei Ventenni 20/7/2020