«Un metro e settantanove, occhi marroni, capelli (pochi) castani, molti peli sul corpo, piede numero 43, balbuzie, ernia inguinale – forse sparita da sola (i medici dicevano: impossibile, bisogna operare) –, canino inferiore sinistro spinto in avanti dal dente del giudizio (mi storta la bocca), setto nasale un po’ sporgente da un lato, miope, lievemente intollerante all’alcol (quando bevo più di un bicchiere mi riempio di macchie), sieropositivo.
E allora?»
Febbre, di Jonathan Bazzi, edito da Fandango Libri, finalista aggiunto alla canonica cinquina dello Strega di quest’anno, è il libro più chiacchierato, più twittato e più discusso sui social. È pure il mio favorito, contro ogni pronostico (anche se io non conto granché). Sarà la mia passione verso gli sfavoriti, i perdenti in partenza. Sarà che è un bel libro, raccontato a cuore aperto. Sarà che Bazzi sembra una persona dolcissima, colta, in gamba. Sarà. Ma se vincesse sarebbe come il trionfo di Becker a Wimbledon appena diciassettenne, della Grecia agli Europei del 2004, del Leicester in Premier League, di Mahmood a Sanremo: l’upset degli underdog, di quelli sui quali non si punta neanche un centesimo. Di quelli che quando vincono ti fanno credere un po’ di più nell’Universo, nella Trascendenza o nel Caso, o di qualsiasi altra cosa governi il mondo… Adesso non venite a dirmi che la letteratura è un’altra cosa perché siamo nel 2020 e anche se è stato un anno disgraziato, o forse proprio per questo, la letteratura e i premi letterati sono anche questo. La letteratura dovrebbe formare e incidere sulle coscienze, e attraverso i premi letterari condizionare il mercato editoriale, indirizzare il lettore. Forse esagero, forse Febbre e Bazzi sono un simbolo, ma è di un simbolo che abbiamo bisogno: un simbolo onesto, coraggioso, sensibile, soprattutto adesso.
Ma sto divagando. Anche perché Bazzi non vuole vincere, lo ha detto in una intervista o forse più. Dice che se vince poi cos’altro può raggiungere? Se vince il Premio Strega col primo romanzo quali altri obiettivi si può prefissare? Intanto sappiamo già che Febbre diventerà un film, e già questo è un grande traguardo, per CROSS Productions.
Febbre, con quella copertina impossibile da dimenticare: occhi azzurri che piangono sangue; difficile che passi inosservata. Prima che mi decidessi a leggere il romanzo è passato un po’ di tempo, ma quella copertina mi è rimasta impressa. Febbre è l’autobiografia di Jonathan che, a capitoli alternati, racconta la sua vita. Un capitolo della sua storia del passato e un capitolo della sua storia del “presente”, ovvero dal giorno in cui gli è venuta la febbre e non è più andata via.
Da quando è nato a Rozzano a quando è “rinato”, scoprendo di essere sieropositivo.
Rozzano, Milano ma non proprio, periferia, scarto, case create dal niente per quelli che sono arrivati da fuori. Rozzano è lo stigma, la radice, la casa che non lo abbandona. Con estrema lucidità Bazzi racconta la sua infanzia, l’amore mancato di suo padre, il distacco iniziale da sua madre, il suo problema di linguaggio, l’omosessualità, sempre saputa ma taciuta, il sesso e l’amore. Dal gennaio 2016 invece il racconto è tutto su sé stesso e sulla malattia o le malattie. Perché gli viene impossibile pensare di essere solo sieropositivo, deve esserci per forza qualcos’altro, deve esserci qualcosa contro cui accanirsi e lottare. E finalmente l’accettazione – dopo i pensieri ossessivi e l’immobilità – di dover convivere con qualcosa che cerca di ucciderti ma tu la combatti, la tieni a bada, sebbene resti lì, in agguato, pronta ad assalirti di nuovo.
Febbre è un libro che parla di minoranze, dei quasi invisibili. Ma è anche un libro sulla conoscenza e coscienza di sé. Di come le nostre radici ci condizionano ma non ci definisicono, di come un evento – come la scoperta della sieropositività – possa stravolgere una vita ma non a metterle un freno. Di come si può ricominciare, sempre, nonostante tutto. È la storia di uno ma può essere di tanti, cento, mille; è la storia di una malattia, sì, ma anche di bambino che è nato nella periferia di Milano da una madre e un padre bambini e che ora è diventato scrittore. E poi sotto c’è tutto il resto, ma non è una cosa sola a determinarlo, sono tutte e nessuna insieme.
Ecco perché voglio che vinca Febbre, perché Bazzi ha raccontato senza pretese la sua storia, ma lo ha fatto con coraggio, senza retorica, senza voler insegnare niente a nessuno. Si è messo a nudo e ha raccontato sé stesso. Come se avesse detto “ecco, questo sono io. Ve lo racconto”. La sua storia- testimonianza, non di riscatto, di rivincita, di rivalsa, ma la sua storia, difficile, complicata, quotidiana. Il linguaggio diretto, telegrafico a tratti, senza filtri ma attento, si addice benissimo alla natura confessionale del romanzo.
Dunque, se pensate che Febbre sia un romanzo sull’HIV vi sbagliate di grosso. Leggere per credere.
«Rifiutando l’obbligo al silenzio mi sono reso trasparente, ho la pelle d’aria, all’occorrenza scompaio: le parole – gentili, feroci – non mi si fermano dentro».