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Tutti contro Beppe Sala: il problema è il Sud?

In un recente dibattito sul web, il sindaco di Milano Beppe Sala ha definito “intrinsecamente sbagliato” che un dipendente pubblico, a parità di ruolo, riceva lo stesso stipendio in Lombardia come in Calabria, senza che sia dunque tenuta in considerazione la differenza nel costo della vita.

Questa affermazione ha risvegliato alcune spinose questioni, mai del tutto sopite, sul rapporto tra nord e sud, sulla questione meridionale e sulle attuali disomogeneità geografiche del mercato del lavoro. Più in generale, tornano in discussione le differenze tra mercato del lavoro e qualità della vita nelle varie parti della penisola.

Nell’economia di una riflessione sulla questione, la frase di Sala, la sua opportunità anche politica e la sua corrispondenza al vero non sono prioritarie. Lo stesso tema dell’adeguamento stipendiale alla qualità della vita appare solo secondario. Davvero rilevante è, invece, il problema di un mercato del lavoro obiettivamente disuniforme e problematicamente in crisi, soprattutto ai tornelli d’ingresso e soprattutto nell’assorbimento dei giovani, professionalizzati e non, formati e non.

Infatti, la criticità straziante legata al mercato del lavoro non concerne tanto il livello stipendiale e le presunte differenze negli adeguamenti tra nord e sud. Riguarda piuttosto chi il lavoro non lo ha, in particolare tra i giovani e giovanissimi, spesso con livelli di formazione e professionalità notevoli.

Sul punto, per evitare fraintendimenti, occorre sgomberare il campo da un preconcetto infondato, che sembra però aver pericolosamente insidiato una certa parte del grande pubblico.

Si è ventilata l’idea che le difficoltà di accesso al mondo del lavoro, per molti giovani, dipendano da una presunta scarsa motivazione, poca propensione alla fatica, mancanza di intraprendenza.

Ciclicamente, riemerge l’idea che i giovani non trovino lavoro perché siano fondamentalmente pigri, svogliati, mammoni. Sempre ciclicamente, diventa virale qualche video girato di nascosto durante i colloqui di assunzione, in cui si mostrano giovani sconvolti quando gli si chiede di lavorare anche di domenica o durante le feste, di accettare doppi turni, di rinunciare alle comodità, agli straordinari. Si tratta di una distorsione di un dato obiettivo e preoccupante, che viene rigirato dal lato sbagliato: la presenza sul mercato di offerte di lavoro del tutto inadeguate al livello di dignità minima del lavoratore.

Il lavoro è davvero “lavoro” solo quando è dignitoso: quando il contratto è regolare, con contributi, il dipendente percepisce uno stipendio proporzionato ai minimi previsti dalla contrattazione sindacale, ha tutte le assicurazioni e le salvezze di legge, gode delle ferie, del riposo. Quando è trattato con rispetto e con professionalità, qualunque siano le mansioni che svolge.

Sono diritti faticosamente costruiti nel corso degli anni, che danno la dimensione della dignità dell’essere umano, a cui il lavoro deve dare i mezzi per vivere, deve nobilitarlo, non consumarlo.

Il ragazzo di diciotto anni appena compiuti che lavora nella cucina del ristorante pulendo le friggitrici, dieci ora a serata, per pochi euro, senza contratto, comandato a bacchetta e lasciato a casa alla prima difficoltà economica dell’attività è un fallimento del mercato del lavoro, della dignità umana, di tutto lo stato moderno.

Non è un “sacrificio” giustificato per lavorare. I diritti non sono mai qualcosa di superfluo, di eliminabile, qualcosa “da viziati”, sono la misura di quanto una società sia sviluppata, sia matura ed evoluta.

Quello che dovrebbe sconvolgere non è quindi il giovane che rifiuta di lavorare anche la domenica e i festivi o di fare doppi turni non pagati, ma chi propone condizioni del genere.

Ciò premesso, per comprendere a pieno il problema della domanda e offerta di lavoro non può non guardarsi anche al parallelo mondo dell’istruzione, soprattutto universitaria. Il mercato del lavoro, in particolare quello giovanile, non può essere infatti studiato come fenomeno autosufficiente e isolato, bensì vive in osmosi con il mondo della formazione e dell’istruzione.

In particolare, terminato il percorso obbligatorio nella scuola pubblica, le alternative sono essenzialmente due: proseguire gli studi o tentare l’ingresso nel mondo del lavoro. La scelta dell’alternativa lavorativa è profondamente influenzata dalla domanda effettiva di nuove leve e dall’appetibilità delle posizioni disponibili. Un mercato povero di domanda, in cui non servono nuovi lavoratori o che offre a questi ultimi condizioni lavorative inadeguate, disincentiverà la scelta lavorativa in favore dell’opzione universitaria, nella speranza di conseguire migliori soddisfazioni.

Non tutti proseguono però gli studi nelle proprie regioni di appartenenza e qui sorge il problema dell’emigrazione universitaria, che riguarda – proprio e per l’appunto – soprattutto il sud. Gli studenti a volte emigrano in altre regioni, se non addirittura in altri stati, per studiare. Talvolta iniziano gli studi in università del posto e li proseguono altrove per le magistrali, per i master. Ancora, a volte concludono gli studi sul luogo per poi partecipare a programmi di reclutamento fuori.

Si sente spesso parlare di brain drain, fuga di cervelli, dall’Italia all’estero. Ma a flussi sostanzialmente migratori si assiste anche all’interno della nazione, sia con riguardo al mercato del lavoro che alla popolazione universitaria.

Si tratta di fenomeni che hanno un notevole rilievo e che incidono profondamente sulle prospettive di crescita di un territorio. Un ragazzo che parte come fuorisede al momento dell’istruzione universitaria o, ancor peggio, per la magistrale o direttamente per il reclutamento lavorativo, rappresenta una perdita per il proprio territorio, che ha investito risorse per formarlo e che se lo vede sottratto come energia accademica e poi lavorativa.

Prima di pensare agli adeguamenti degli stipendi, dovremmo quindi dare risposta a due problemi prioritari. Anzitutto, incrementare i controlli per assicurare che il lavoro regolare, con contratti trasparenti e rispettosi della dignità dei lavoratori. Quindi monitorare i flussi migratori di studenti e lavoratori, valorizzando i mercati di quelle regioni che più subiscono un drain di giovani, incentivandone l’economia per garantire appetibilità e qualità della vita e finanziando il settore universitario per garantire congruità e ampiezza dell’offerta accademica.

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