Dedico queste parole a Nino: uomo, avvocato ed artista sfavillante che tra un aneddoto su De Andrè e una chitarrata fugace mi parlò della poetica di Piero Ciampi.
Trovo particolarmente difficile parlare dei personaggi che hanno influenzato la mia esistenza, quando lo faccio ho come l’impressione di liofilizzare un’emozione e di renderla dozzinale, di svenderla. Un po’ come capitava a Piero “Litaliano” con le sue canzoni, nelle quali intrappolava se stesso e perciò a cantare molte volte non si presentava affatto. E’ il 1971 e Piero è dietro le quinte dell’Auditorium Rai di Napoli, luogo in cui sta andando in onda il popolare varietà televisivo “Senza Rete”. Si trova lì per volere di Charles Aznavour che avendo ascoltato casualmente uno dei primi frutti del connubio artistico tra Piero Ciampi e Gianni Marchetti -Tu no- ne rimane folgorato. “Accogliamolo con un applauso speciale, è Piero Ciampi!”. “Voi qui in sala, facciamoli sentire… Lui ha un po’ paura… Devi parlare qui e devi guardare assolutamente là, in quell’occhio magico, terribile”. Così lo annuncia un giovane Paolo Villaggio che è riuscito a trascinarlo in scena per il rotto della cuffia, Piero aveva cambiato idea all’ultimo e non voleva più esibirsi: “A parte che sto parlando con te,” controbatte (tant’è che non guarderà mai in camera) “Ma comunque il fatto… Più che paura è un, un certo imbarazzo perché io son venuto qui per cantare una canzone e mi sembra che questo dica tutto, insomma, uno arriva, parte, cioè arriva, canta una canzone e parte. Ora siccome questa canzo…” Villaggio lo interrompe sul più bello, i tempi televisivi non permettono fuoriuscite d’una simile profondità, non occorre spiegare, piuttosto iniziare, Piero quindi intreccia le braccia e rompe il silenzio:
“Tu no
Tu no
Tu no”
Ammiratelo col cuore spaccato che versa lacrime amare nell’appartamento di via Macrobio per l’ennesimo abbandono, questa volta è Gabriella a volare via come un soffione e con lei la figlia Mira.
Eppure Piero ci aveva provato a vivere secondo il volere dei ben pensanti: il primo album “Piero LITALIANO” conforme alle sonorità dell’epoca(1963), il matrimonio con Moira l’irlandese, la possibilità di farsi conoscere al grande pubblico con la RCA verso la fine degli anni sessanta, ma non sono che attimi effimeri.
Il primo album è un insuccesso, il matrimonio non dura che qualche mese e quando Gino Paoli gli fa avere un anticipo di due milioni di lire dalla RCA lui per tutta risposta gli dice”Oh Gino, glielo abbiamo buttato nel culo!”. Quelli della RCA non lo videro più per tre anni, Piero è andato a cercare Moira in Inghilterra o più verosimilmente è da qualche parte a bere il bevibile.
“Niente, è questo il mio equilibrio, la mia politica. Cercare di non offendere gli altri avendo qualcosa in più dell’uomo più povero di questa terra. La poesia è la sola cosa che ho.”
Questo risponderà alla domanda “cosa pensa di avere più degli altri?” in un’intervista del 1976. A vent’anni da Livorno parte per Parigi con una chitarra e una stecca di sigarette, lì scrive poesie sui tovaglioli delle osterie, talvolta le canta per pochi franchi, per tutti è Piero “l’italianò”, parla con Celine, ascolta Brassens, conosce Leonard Cohen e senza un soldo dorme dove capita: ha tutte le carte in regola per essere un artista.
Per capire l’arte di Piero Ciampi o prima ancora Piero Ciampi uomo basta mettere insieme i tasselli presenti in ogni sua canzone, ricongiungere le varie parti di un cuore che “giace inerte rossastro sulla strada” e ascoltare quel timbro di voce unico confidarti la sua vita tragicomica: eccolo in un palazzo di giustizia litigare con l’ex moglie, ora rompere il naso alla donna che ama in un accesso d’ira o mandarla letteralmente a fare in culo (dimostrando tra l’altro un’audacia assolutamente inusuale per l’epoca), fingere di cercare lavoro, rimorchiare donne delle quali ricorda a mala pena i volti l’indomani e perdere tutto al gioco.
L’Italia però sembra non accorgersi di lui o forse non è pronta sebbene gli anni ’70 sembrino poter essere quelli della svolta: dà il meglio di sé in termini musicali (in questo periodo compone con Gianni Marchetti l’album omonimo e “Io e te abbiamo perso la bussola”), il premio Tenco lo invita a presenziare svariate volte, nel ’77 la rai gli fa registrare un programma incentrato sulla sua musica, Ornella Vanoni vuole cantare le sue canzoni e i locali sono disposti a pagarlo ben trecentomila lire per una sua esibizione.
Ma come ho già detto, Piero fugge da ogni possibilità di ribalta. Ovunque vada è perennemente ebbro, finanche negli studi della rai, tant’è che la trasmissione viene relegata all’ora di pranzo e viene ridotta ad un’unica registrazione e quando va a cantare spesso non finisce nemmeno la prima canzone.
Al Tenco presenzierà solo nel ’76 e rimarrà l’ultima grande memorabile esibizione di Piero Ciampi che ubriaco fradicio litigherà dapprima con gli organizzatori per il compenso, all’entrata in scena con un paio di spettatori per poi concludere in un bagno di applausi, l’anno dopo verrà nuovamente invitato ma al posto suo arriverà un telegramma del genere: “Non sono potuto venire, Piero.”
“Scusami, se tu vuoi parlare vieni qua, io rischio, te no, tu sei un anonimo, io no.”
Un destino già scritto, Piero lo sa, ci ha messo la firma lui, vuol morire insieme all’amico di sempre, il compagno d’una vita che al contrario di Gabriella e Moira non fugge, lo comprende e gli fa dimenticare ogni pena.
“Spera, Mira, Spera”
Non c’è più tempo però per le speranze di Mira: è il 1980 e Piero ha, contrariamente alle sue previsioni, un cancro alla gola: nel 1980 se ne va ricoperto di fiori uno tra i più grandi artisti italiani di tutti i tempi.
“Piero stava già male e quando gli chiesi cosa maggiormente avrebbe desiderato mi rispose: “Un fiore”. Lo annunciai attraverso la radio e il giorno dopo, all’ospedale, centinaia di persone attendevano fuori dalla porta, tutte con un fiore in mano. La sua era una stanza da venti letti: l’ho fatto sedere, lavato e pettinato e poi, come in un’azione di teatro, ho dato il via. Tutti sono sfilati davanti a lui, lasciandogli il loro fiore da vivo, non da morto! Gli riempirono il letto, e lui, tra l’incredulità e la commozione: “Ma sono tutti per me? E per gli altri?. “Sì sono tutti per te, gli altri avranno tempo…” Morì il giorno dopo….” (Gianni Elsner)