Tutti odiano le tasse e le imposte. Tuttavia, vorremmo innanzitutto spezzare una lancia a favore di questi strumenti: senza di essi, non sarebbe possibile avere i servizi essenziali che lo Stato fornisce e non sarebbe possibile redistribuire la ricchezza e raggiungere una certa giustizia sociale. Unica condizione: che il do ut des sia bilanciato, che non ci si trovi di fronte ad uno Stato che chiede molto, ma restituisce poco.
In questo numero ci focalizzeremo in particolare su quelli che riteniamo i tributi più antipatici: le accise. Antipatici, perché (soprattutto nel nostro Paese) tendono ad “appiccicarsi” ad alcuni prodotti di consumo e a non andare più via, anche nel caso in cui, come vedremo, le motivazioni per cui sono state introdotte non esistono più.
Prima di addentrarci nell’argomento accise, è tuttavia necessario fare alcune brevi premesse.
Per far fronte alle proprie esigenze di spesa ed intervento nell’economia e per garantire a tutti i soggetti alcuni servizi essenziali, lo Stato ha bisogno di avere delle entrate.
La maggior parte di queste entrate è di natura fiscale, vale a dire conseguita attraverso la riscossione dei tributi.
I tributi sono definiti come prestazioni patrimoniali coattive (cioè obbligatorie), solitamente di carattere pecuniario, stabilite dallo Sato tramite legge o atti ad essa equiparati (decreti legge e decreti legislativi).
I tributi hanno tre funzioni:
- Acquisitiva: è finalizzata a fornire all’Ente Pubblico le entrate di cui necessita per il proprio funzionamento (tipicamente per finanziare l’erogazione di beni e i servizi);
- Distributiva: persegue l’obiettivo della redistribuzione della ricchezza tra i contribuenti per garantire una giustizia sociale (è tipicamente realizzata attraverso l’imposizione di tributi progressivi, che prevedono l’aumentare del prelievo in maniera più che proporzionale all’aumentare della base imponibile- che per il momento, generalizzando e con poca precisione, possiamo definire come ricchezza disponibile);
- Promozionale: è finalizzata ad incentivare o disincentivare determinati comportamenti dei contribuenti (tipicamente agevolazioni o penalizzazioni fiscali).
Nel nostro Paese, i tributi sono divisi in due gruppi, tenendo conto della loro funzione acquisitiva: imposte e tasse. A questi si potrebbe aggiungere il gruppo dei contributi, anche se alcuni ritengono che possano essere assimilati alle tasse.
Mentre nel linguaggio comune questi termini sono spesso utilizzati indifferentemente, in realtà sono ben distinti.
La tassa è un tributo dovuto dal singolo soggetto per lo svolgimento di un’attività statale e/o per la fruizione di un servizio pubblico da egli stesso richiesto, caratterizzato dalla divisibilità (cioè di cui ognuno può decidere se avvalersi o meno). Tipico esempio di tassa è quella sull’istruzione o sulla sanità.
L’imposta è un tributo caratterizza il cui presupposto è un evento valutabile economicamente ed è realizzato dal soggetto passivo. Non ha alcuna relazione con lo svolgimento di una particolare attività o servizio, ma è un tributo necessario a finanziare i servizi indivisibili garantiti dallo Stato, quali la difesa, la giustizia o l’ordine pubblico. Tipici esempi di imposte sono quelle sul reddito o sugli immobili.
Dopo questa premessa, possiamo finalmente definire le accise: si tratta di imposte sulla fabbricazione e vendita di prodotti di consumo. Sono applicate a specifiche categorie di prodotti, sulla quantità (e non sul prezzo come ad esempio l’IVA), rappresentano un’alta percentuale del prezzo finale.
In Italia, le accise sono essenzialmente quelle sui carburanti, sull’energia elettrica e sull’alcol.
Ma perché definirle antipatiche ed appiccicose? Per rispondere è sufficiente prendere ad esempio quello che succede per i carburanti: in Italia, circa il 60% del prezzo finale della benzina è dovuto alla presenza di accise, talune che fanno riferimento ad eventi ormai tanto lontani nel tempo che rende difficile giustificarne la presenza, come quella per finanziare la guerra in Abissinia o per la crisi di Suez.
Nell’Indice delle Liberalizzazioni stilato per il 2014 dall’Istituto Bruno Leoni, l’Italia risulta il secondo Paese meno liberalizzato nel settore dei carburanti nei 15 principali Paesi europei considerati. Lo studio identifica il prelievo fiscale come il terzo e più importante fattore che frena oggi la liberalizzazione del settore dei carburanti.
La presenza di imposte così alte, condiziona fortemente l’economia poiché ha effetti non solo sui consumi (che diminuiscono a causa dei prezzi troppo alti), ma anche sulla concorrenza: le variazioni di prezzo decise dagli operatori diventano difficilmente percepibili dai consumatori in quanto la maggior parte del prezzo finale è costituito dalle accise. Pertanto le imprese sono disincentivate a mettere in atto i meccanismi alla base della concorrenza.