La storia insegna a non ripetere gli errori del passato, ad impiegare mezzi e risorse in modo proficuo, cosí da guardare al futuro con prospettiva e speranza.
Partendo da questo presupposto, e in base alla mia esperienza personale, voglio mettere a confronto due terre di emigrati, l’Italia e l’Irlanda, e come l’una e l’altra oggi affrontano il fenomeno emigratorio.
Volgendo lo sguardo al passato, due sono stati i maggiori periodi dell’emigrazione italiana: la cosiddetta Grande Emigrazione, avvenuta tra gli ultimi decenni del 1800 e le prime due decadi del 1900, in cui circa 30 milioni di italiani hanno trovato dimora all’estero, e durante la Grande Emigrazione Europea, vale a dire dopo la seconda Guerra mondiale e fino agli anni ’70, in cui sono emigrati circa 18 milioni di italiani.
Di questi, circa il 35% ha fatto ritorno, il restante spesso si é naturalizzato nella terra di arrivo, talvolta ha anche scelto di rinunciare alla cittadinanza italiana.
Riguardo quegli anni, si fa riferimento ad una fuga di “braccia”, di mera forza-lavoro. Il piú delle volte i lavoratori che volevano recarsi in terra straniera erano costretti ad affrontare viaggi della durata di settimane per arrivare a destinazione; Una volta arrivati, venivano visti come “barbari” e per lo piú esclusi dalle comunitá locali. Gli italiani andavano spesso incontro a fenomeni di discriminazione e razzismo, non considerati “bianchi”.
Anche contro noi italiani il colore della pelle, il quale é puro costrutto sociale, é stato utilizzato come spada da parte della classe privilegiata per inneggiare ad una identitá nazionale della quale non facevano parte.
Oggi, l’emigrazione é molto diversa; i lavoratori italiani sono ben voluti all’estero per le proprie potenzialitá e qualifiche: questo periodo é conosciuto come “la fuga dei cervelli” in particolare proveniente dal Sud Italia.
Molto spesso chi va via ha voglia di affermarsi professionalmente senza dover scendere a compromessi morali, di veder riconosciuto un successo meritato, di mettere in pratica gli anni di studio, i sacrifici propri e delle famiglie, o, semplicemente, e proprio come in passato, di trovare un lavoro.
Sono tantissime le testate che con cadenza quotidiana riportano la medesima notizia: il Sud Italia si spopola, al Sud ci sono pochi giovani.
La chiave di lettura può essere il tasso occupazionale calcolato dall’ISTAT in ottobre 2019: è il 9,7%. Sono circa 250 mila gli Italiani che si stanziano all’estero ogni anno; i numeri di iscrizione all’AIRE (Registro degli italiani che vivono all’estero) è in crescita. Anche l’EUROSTAT del 2017 afferma che i tassi di occupazione degli italiani all’estero sono pari al 77%.
Eppure, queste sono notizie che quasi non fanno più notizia, che lasciano il lettore con un senso di tristezza e di impotenza davanti ad uno Stato che sembra arrendersi al suo destino.
Ci chiediamo la ragione per la quale l’Italia non riesca a valorizzare complessivamente la bellezza su cui puntare; non solo quella artistica, culturale, culinaria, il famoso “made in Italy”, ma anche quella intellettiva. Ci sentiamo italiani soprattutto quando andiamo all’estero e prendiamo coscienza di ciò che gli altri paesi hanno da offrirci e di come siamo valorizzati.
Tuttavia,ci sentiamo offesi nel vedere la pizza con sopra l’ananas ma ci rassegniamo nel vedere un laureato non retribuito e precario; tutto questo appare paradossale. Dovremmo saper attribuire la giusta importanza ai valori che stiamo perdendo.
Si parla sempre piú di misure per attrarre il capitale umano emigrato, uno di questi è il Decreto Crescita i cui incentivi decorreranno dal 2020; altrettanto vero è che sono necessarie misure per attrarre il capitale umano presente, un piano anti-fuga.
Infatti, l’espressione “fuga dei cervelli” non tiene in conto dei tantissimi cervelli ancora presenti in Italia, sui quali l’Italia dovrebbe ancora puntare.
Sarebbe opportuno riferirsi al fenomeno emigratorio in atto come ad una fuga dalla mancanza di prospettiva e di stabilità, una mancanza che, chi rimare, è costretto ad accettare: condizioni di lavoro precarie, instabili, sottopagate, magari anche per anni o del tutto assenti.
Noi italiani dalla storia abbiamo ancora tanto da imparare.
Anche l’Irlanda è stata terra di espatrio, da cui circa 9 milioni di persone si sono allontanate tra il 1700 ed il 1900.
Guardando ai tempi più recenti, l’Irlanda conta una popolazione di 5 milioni, con 70 mila non-irlandesi ed un tasso di occupazione pari al 70% ed in crescita. Questi numeri sono straordinari se considerata la recessione del 2008; in soli quattro anni l’economia si è rialzata ed i tassi di disoccupazione scesi all’8%.
L’Irlanda ha puntato su una forte strategia tra il governo, gli enti privati ed il settore educativo in ambito farmaceutico, delle tecnologie informatiche e sanitario.
Questo modello di integrazione ed inclusione attrae lavoratori e studenti da tutto il mondo e prepara i giovani al mondo del lavoro, in altre parole, dà una prospettiva di futuro a chi si è formato.
Al centro del piano di risanamento demografico irlandese vi sono misure importanti di agevolazione fiscale per le aziende ed i lavoratori, l’Irlanda è oggi il quartier generale di moltissimi colossi (Google, Facebook, LinkedIn, Airbnb) per il mercato Europeo, Africano e Mediorientale.
Inoltre, a fronte di 29 mila irlandesi che emigrano ogni anno, circa 27 mila irlandesi fanno rientro.
Questi non sono i dati di una diaspora in corso ma di un assestamento della popolazione che fa ritorno nella terra d’origine in quanto vi sono opportunità di crescita.
Per concludere, l’emigrazione è in gran parte dettata da fattori economici, ma non è un fenomeno irreversibile; individuati i settori su cui investire, soprattutto l’inclusione e formazione dei giovani in linea con le richieste del mercato, l’aumento dei posti di lavoro ed il cambio generazionale rappresentano i punti di partenza da prendere in considerazione.
L’Italia ha le potenzialità di offrire ottime condizioni di vita, se solo ci fossero le condizioni per non andar via, non andrebbe via nessuno.