Gli Stati Uniti sono un Paese strano, che tutti pensano di conoscere per il solo fatto di essere stati immersi nella loro realtà cinematografica dalla piccola finestra di un cinema, un televisore, o più recentemente di tablet e smartphone, oppure che possa essere compreso e valutato appieno dai numerosi servizi e approfondimenti televisivi che vi dedicano ampio spazio mediatico.
La realtà, per chi ci vive, è che si tratta di una Nazione estremamente complessa e variegata, che sta attraversando un momento unico della sua storia per dinamiche politiche, economiche e sociali. Lo avevamo lasciato un paio d’anni fa con tumulti di magnitudo inaspettata e violenta per via delle proteste legate alla morte di George Floyd e la nascita del movimento Black Lives Matter, i cui cartelli di protesta ancora campeggiano fieri dalle finestre e nei giardini di molte abitazioni delle case nel quartiere dove abito, e altrove.
Da allora, oltre a un cambio di Presidenza che ha portato in dote un altro momento di tensione senza precedenti nella storia di questo Paese, e che ancora rappresenta un’indelebile cicatrice nella sua storia, come l’assalto a Capitol Hills e il presunto coinvolgimento più o meno diretto dell’ex Presidente Trump, gli Stati Uniti sono stati travolti come il resto del mondo dall’emergenza sanitaria legata al diffondersi del Covid-19.
Quella pandemia, che ha visto ancora una volta il manifestarsi di quella eterogeneità difficile forse da cogliere per chi non la vive, con Stati che hanno agito in modi contrastanti e confliggenti tra loro sulle misure da adottare e sulla portata stessa del fenomeno in atto, sembra ormai un ricordo abbastanza lontano, con le mascherine quasi estinte dai volti di chiunque e la sensazione condivisa di scampato pericolo.
Quello che però in un primo momento fu colpevolmente sottovalutato, e oggi si manifesta con una virulenza assai più rilevante di quella del virus, è la conseguenza di quel periodo nella mentalità e nei modi di agire degli americani.
Dopo un periodo più o meno lungo di cattività legata ai vari lockdown,e la sensazione di precarietà dell’esistenza che un po’ tutti a livello globale abbiamo percepito al dilagare di quel fenomeno che mai avremmo pensato di vivere nel nostro tempo, in molti hanno completamente destrutturato quello che credevano di sapere sul loro percorso di vita, avviando un percorso di riassegnazione delle priorità destinato ad avere effetti profondi sul mercato del lavoro e non solo. In molti si sono accorti che era perfettamente possibile lavorare da casa senza particolari intoppi, con gli aggiunti benefici di un risparmio sia di tempo che di denaro, ma anche di poter godere maggiormente degli affetti familiari e sociali. Oggi quelle persone si rifiutano categoricamente di tornare in ufficio per più di uno o due giorni a settimana e chi prova a imporre il contrario riceve una pronta lettera di dimissioni da parte del lavoratore.
Quelle stesse persone, che tempo addietro erano disposte a sacrificare il proprio tenore di vita pagando affitti spropositati per bettole di quint’ordine per il solo fatto di poter essere geograficamente prossimi al proprio posto di lavoro, hanno presto invaso altre zone dal costo della vita più abbordabile, aumentandone i costi di locazione e generando un enorme effetto di gentrificazione i cui effetti si dispiegheranno in pieno solo nei prossimi anni.
Altri, invece, si sono accorti del fatto che semplicemente non amavano il proprio lavoro. Hanno approfittato del lockdown per acquisire le competenze necessarie a sviluppare ulteriormente le competenze negli ambiti che rappresentano una loro passione (o a monte per trovarne una), e hanno deciso di intraprendere una nuova carriera “in proprio” grazie alla ben nota semplicità e rapidità del processo statunitense di formazione di una società.
Anche in quel caso, quindi, il datore di lavoro è stato svegliato da una lettera di dimissioni da parte di quello che riteneva essere un tassello importante del proprio meccanismo produttivo. Per averne un altro di pari valore, in un mercato competitivo come quello statunitense, ha necessariamente dovuto alzare il tiro salariale contribuendo ad un fenomeno inflattivo già pesantemente alimentato dai vari colli di bottiglia nella produzione di molte componenti di uso quotidiano.
Questo fenomeno, nella sua complessità, è stato definito “The Great Resignation”, ovvero le grandi dimissioni, ed oltre agli effetti devastanti e prevedibili che ha sul mercato del lavoro, genera anche conseguenze di rilievo sotto il profilo sociale. In molti negli Stati Uniti si sono accorti di quanto caduca sia la vita davanti e fenomeni che mettono in discussione le fondamenta del proprio modello di riferimento e hanno deciso di inseguire altre strade che permettano loro di godere di una qualità della vita che prescinda dal mero stipendio portato a casa, comunque anch’esso in deciso aumento, ma che prenda in considerazione altri fattori che sarebbe sbagliato porre in secondo piano fino ad un’età avanzata, legati agli affetti e al tempo da dedicare ad essi.
Il fenomeno è tale che anche la cantante Beyoncé, tra le voci più rilevanti in assoluto dello star system americano, ha deciso di dedicarvi il suo nuovo album dal titolo Renaissance, e che andrà a costituire un vero e proprio inno di questo nuovo modo di concepire il lavoro, la vita e più in generale il proprio tempo. Emblematiche le parole contenute nel brano Break My Soul, che recitano “Now I just fell in love / And I just quit my job / I’m gonna find new drive / Damn they work me so damn hard / Work by nine / Then off past five / And they work my nerves / That’s why I cannot sleep at night.”.
Si tratta, quindi, di null’altro che di una nuova rivoluzione culturale, di cui gli Stati Uniti, un paese sempre più frastagliato e “inquieto”, si stanno ergendo a promotori, ma che in parte sta coinvolgendo molte altre nazioni occidentali e che non mancherà di segnare un passo importante per la cultura del Mondo intero.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni