Stupefacenti: quando è “troppo”?

Per sostanze stupefacenti, alias droghe nel linguaggio comune, s’intendono numerose sostanze eterogenee sia naturali sia chimiche farmacologicamente attive dotate di azione psicotropa, ovvero in grado di alterare, a seconda della sostanza, lo stato psico-fisico di un soggetto. In particolare, l’attenzione, l’umore, la coscienza e così via. 

Oggigiorno l’uso comune relega il termine nell’ambito delle sostanze illegali, ma in realtà sono droghe anche molti dei farmaci previsti nelle terapie mediche per curare determinate patologie (infatti in inglese, il termine drug sta ad indicare genericamente un farmaco) o consumate liberamente come la nicotina, l’alcool e la caffeina.

Caratteristica fondamentale di tali sostanze è che oltre a indurre comportamenti anormali, sconvolgono specifici sistemi neuronali determinando modificazioni delle funzioni del sistema nervoso centrale, e, con il tempo, deteriorano il processo di nutrizione degli organismi.

Il principale problema, soprattutto dal punto di vista sociale, è che molte tra queste sostanze possono essere oggetto di abuso dal momento che hanno la capacità di generare, anche a piccole dosi, dipendenza sia fisica sia psichica nel soggetto che le assume e, in caso di brusca cessazione della somministrazione, inducono spesso la sindrome di astinenza, sindrome di altissima gravità.

La nozione di stupefacente ha rilevanza legale, tuttavia l’attuale sistema normativo è caratterizzato dall’assenza di una nozione onnicomprensiva di «sostanza stupefacente». Infatti, il legislatore si è limitato ad indicare solo dei criteri in base ai quali il Ministero della salute deve provvedere ad inserire le sostanze che intende sottoporre a controllo e vigilanza nelle cinque tabelle allegate al D.P.R. 309/1990. Da tale impostazione ne consegue un costante e tempestivo aggiornamento delle stesse ogni qual volta si presenti la necessità di inserire una nuova sostanza o di variarne la collocazione o di provvedere ad una eventuale cancellazione.

A seguito della legge 49/2006, l’uso personale di stupefacenti è stato depenalizzato: esso costituisce un illecito amministrativo, pertanto non sanzionabile con strumenti rieducativi o repressivi tipici del sistema sanzionatorio penalistico. Tale modifica ha comportato una dicotomia nel campo legale: da un lato, chiunque spacci sostanze stupefacenti o psicotrope a soggetti terzi, gratuitamente o dietro corrispettivo, commette un reato per il quale potrà essere condannato ad una pena che varia a seconda della quantità di droga rinvenuta in suo possesso;  dall’altro chi, invece, acquista ed è trovato in possesso di tali sostanze solo per uso personale, sarà punito unicamente con sanzioni amministrative.

Quando è uso personale?

Il problema è che il confine tra spaccio ed uso personale di sostanza stupefacente non è ben definito, poiché il legislatore non ha fornito una nozione precisa di “uso personale”. Quindi, bisogna far riferimento a tre criteri guida di natura indiziaria forniti dallo stesso per l’acquisto (come la ricezione, la detenzione ecc..) di tali sostanze per uso personale:

  1. la quantità della sostanza, se inferiore o superiore ai limiti massimi fissati nelle apposite tabelle ministeriali;
  2. le modalità di presentazione della stessa;
  3. ogni altra circostanza in qualche modo considerata significativa, come ad esempio le modalità della custodia della droga o il rinvenimento di sostanze di natura differente.

È dunque evidente che il discrimen tra le due diverse fattispecie risiede non solo nella quantità di sostanza rinvenuta, ma anche nella presenza o meno di mezzi idonei al confezionamento della stessa oppure ancora nella presenza di diverse qualità.

Quando è spaccio?

Secondo le tabelle ministeriali, perché si possa parlare di uso personale e non di spaccio, la quantità massima detenibile si ottiene moltiplicando la dose media singola (D.M.S.), cioè la quantità di principio attivo che produce l’effetto stupefacente in chi la assume, per un numero stabilito, definito moltiplicatore.

Si tratta, naturalmente, di un valore indicativo per cui:

  • superato il limite si presumerà lo spaccio, fatta salva la possibilità per il consumatore di dimostrare l’uso personale del maggior quantitativo detenuto;
  • al di sotto del limite, però, non si ipotizzerà in automatico l’uso personale in quanto bisognerà escludere la presenza di elementi indicativi dello spaccio.

Il soggetto che realizza uno spaccio di sostanza stupefacente o una detenzione per tale finalità è punito, a seconda del tipo di sostanza, con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da € 26.000 a € 260.000.

Nell’ipotesi in cui i fatti siano considerati di lieve entità per i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, la pena è la reclusione da sei mesi a quattro anni e la multa da € 1.032 a € 10.329 (art. 73, comma 5 d.P.R. 309/1990).

Al contrario, nell’ipotesi di detenzione per uso personale, si realizza un illecito amministrativo che viene punito con una o più sanzioni amministrative previste dall’art. 75 d.P.R. 309/1990:

  • sospensione della patente di guida o divieto di conseguirla per un periodo fino a tre anni;
  • sospensione della licenza di porto d’armi o divieto di conseguirla;
  • sospensione del passaporto e di ogni altro documento assimilabile o divieto di conseguirli;
  • sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o divieto di conseguirlo se è cittadino extracomunitario.

È importante ricordare che il soggetto sottoposto a questo tipo di sanzioni amministrative, quale detentore di tali sostanze per uso personale, non subirà alcun procedimento penale, rimanendo dunque incensurato. Il casellario giudiziale non riporterà questo tipo di segnalazione, che invece comparirà nella banca dati delle forze dell’ordine, la quale elenca i precedenti di polizia.

E quando si coltiva?

Per quanto concerne la coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, se non autorizzata, siffatta condotta è penalmente rilevante indipendentemente dalla finalità a cui è preposta. Ne consegue dunque che, anche qualora il prodotto narcotico sia destinato all’uso personale, il soggetto è perseguibile penalmente. Questa distinzione tra la condotta di coltivazione, penalmente sempre punita, e le altre condotte contigue al consumo di sostanze stupefacenti, per le quali è determinante il criterio finalistico della destinazione ai fini del penalmente rilevante, ha sollevato numerosi dubbi di costituzionalità.

Tuttavia, sia la Corte costituzionale che la Cassazione hanno messo in rilievo il fatto che l’offensività della condotta in esame consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, dal momento che, a differenza delle prime, arricchisce la provvista di sostanza stupefacente esistente sul mercato, essendo tra l’altro impossibile determinare ex ante il quantitativo esatto di sostanza estraibile.

Dunque, tale fattispecie si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, da una notevole anticipazione della tutela penale e dalla valutazione di un “pericolo del pericolo”, cioè del pericolo della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti, ovverosia la salute collettiva, la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché la salvaguardia dei minori di età.

Nonostante la rilevanza penale di qualsiasi condotta di coltivazione, rimane comunque di fondamentale importanza una verifica del giudice di merito circa l’offensività della singola condotta in concreto accertata, dovendo il giudicante valutare, ai fini della punibilità della condotta posta in essere, l’idoneità della sostanza ricavabile dalla coltivazione a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.