Spopolamento del Sud? Lavoro da remoto? Fuga di cervelli? La risposta più efficace, efficiente e pratica a tutto questo l’hanno trovata Martina Derito e Angelo Antinoro, fondando l’associazione “South Working, Lavorare al sud” nel momento in cui, a seguito del lockdown di marzo 2020 dovuto alla pandemia da Covid 19, si sono guardati intorno e hanno colto una necessità prepotente e preponderante che veniva da tutto il mondo dei lavoratori ed in particolare dai lavoratori originari del Sud Italia emigrati al nord in cerca di lavoro.
La pandemia ha evidenziato molti problemi, e il metterli in luce ha permesso di pensare a delle strategie su come iniziare a fronteggiarli: la strategia che finora sembra la più promettente è appunto il South Working.
Essere un south worker non vuol dire solo “lavorare al sud”, vuol dire essere parte di una comunità, condividere spazi, esperienze e professionalità per dar vita a un nuovo modo di intendere il lavoro”,
sono queste le parole con cui ha deciso di presentarsi l’associazione sul loro sito internet, consultabile al link www.southworking.org, per sottolineare il loro intento aggregante e accogliente verso chiunque si sia trovato durante il lockdown e si trova tutt’ora in una condizione lavorativa che vorrebbe cambiare. Il southworker, infatti, è colui che lavorando soprattutto in grandi aziende del Nord Italia, con l’avvento delle restrizioni per fronteggiare la pandemia da Covid-19, per necessità si è trovato da un momento all’altro a lavorare da remoto e quindi ha preso in considerazione l’idea, poi realizzata, di tornare alle proprie origini meridionali e trascorrere lì un periodo così buio della storia, accanto ai propri cari, ma continuando il proprio lavoro.
I south workers sono per lo più volontari con un’età compresa tra i 25 e i 40 anni, professionisti che hanno vissuto per diversi anni al Nord, con una grande esperienza lavorativa alle spalle. Il racconto delle storie attraverso i social ha permesso al fenomeno di arrivare ad avere rilevanza anche a livello internazionale, tanto che 2 south worker sono stati intervistati a tal proposito anche da un noto giornale danese “Politiken”, a dimostrazione del fatto che lo sfruttamento dell’online può creare una rete altrimenti irrealizzabile.
La necessità impellente di migliaia di professionisti originari del Sud Italia di occupare posizioni di prestigio, soprattutto in grandi aziende che hanno sede nelle grandi città, ha spinto tantissimi a trovare le risposte ai propri bisogni nel Nord Italia, dove l’offerta lavorativa è maggiore e l’immigrazione dal Sud è ormai un fenomeno consolidato. Tutto questo permette ai lavoratori di ottenere uno stipendio nettamente superiore a quello che può offrire il Sud, ma non comporta un corrispettivo miglioramento della qualità della vita: la causa principale di questo è il costo della vita che a Nord è più alto e un altro elemento importantissimo spesso poco preso in considerazione è il diffuso malcontento che può subentrare in chi soffre maggiormente la lontananza dei propri affetti, della proprie radici. La lezione buona della pandemia è che si può tornare, è possibile e attuabile, così come lo è anche colmare il divario tra Nord e Sud (o almeno iniziare a lavorare per riuscirci).
La psicologia del lavoro ci insegna che non sono rari tra i lavoratori i casi di burnout, che è il termine inglese e tecnico per indicare lo stress lavoro-correlato. Questo può essere incrementato o addirittura scatenato dalla solitudine e in generale dal malcontento personale, oltre che da un eccessivo carico lavorativo. Non sempre i datori di lavoro sono attenti a questo aspetto, fin troppo sottovalutato, ma che potrebbe mettere a rischio il funzionamento di intere aziende, dal momento che sovente si ripercuote sul clima emotivo del luogo di lavoro e anche sulla produttività stessa. D’altro canto assistiamo ad una situazione in cui il Sud Italia perde costantemente popolazione, aggravando la situazione di bassa offerta lavorativa e alimentando quel circolo vizioso che porta all’emigrazione di tantissimi professionisti, facendo passare l’idea che, per sentirsi pienamente realizzati dal punto di vista lavorativo, l’unica soluzione sia andar via dalla propria casa e crearsi una nuova vita altrove. In questo modo il Sud resta sempre relegato unicamente allo stereotipo di luogo in cui trascorrere le vacanza, in cui tornare momentaneamente, senza stabilirsi, in quanto fermarsi, restare o tornare al sud è quasi visto come una sconfitta personale.
La domanda che la pandemia ci ha posto è stata improvvisa e dirompente:
E se tutto questo si potesse cambiare? Se ci fosse una soluzione alternativa allo stile frenetico e spesso solitario delle grandi metropoli?
Lo scopo primario del south working è quello di combattere lo spopolamento del Sud e rendere il Sud un polo attrattivo, non soltanto come meta estiva, ma anche per svariate professionalità, che possono iniziare a vedere la propria casa, come il posto in cui restare o tornare è un’opzione. Un esempio fra tutto è il comune di Isnello, un piccolo paesino di 1500 abitanti della provincia di Palermo, che ha stabilito un protocollo di intesa con il centro astronautico, per il suo osservatorio “Gal Hassin”, che è stato il primo a identificare il meteorite “Apophis”, diventando un centro mondiale per la ricerca scientifica, ma purtroppo poco conosciuto. Questo è una prova del fatto che lavoratori scientifici altamente qualificati possono essere ospitati anche nei luoghi più impensabili e potrebbero innescare così un circolo virtuoso, aumentando la domanda di grandi infrastrutture professionali.
Il southworking permette così di dare al lavoratore che ha la voglia di tornare al Sud di farlo, alle aziende di abbattere i costi degli uffici e degli spazi comuni, della manutenzione e ai datori di lavoro di avere l’opportunità di essere più attenti ai bisogni dei lavoratori, rispettandoli e contribuendo al loro benessere psicologico e di conseguenza alla produttività aziendale. Insomma è una visione incentrata sul benessere, che in quest’ottica non dipende necessariamente dal lavoro, andando contro una visione totalmente diversa da quella diffusa finora, colma di competizione e che produce un mercato immobiliare stracolmo.
Il south working è nato nel 2020, ossia poco più di un anno fa e stima ad oggi già ben 100.000 lavoratori e si spera sia solo l’inizio. Dall’ultimo rapporto SVIMEZ sono stati tracciati 45.000 lavoratori che sono assunti da grandi aziende settentrionali ma che lavorano dal Mezzogiorno; il numero, però, è nettamente superiore, ma poco tracciabile in quanto non è semplice il conteggio dei lavoratori di medie e addirittura piccole aziende. Di questi il 40% ha deciso di restare in maniera stabile e duratura al sud, come si registra dal mercato immobiliare.
L’ISTAT ha notato, con i dati alla mano, una grandissima “voglia di Sud”, anche dopo il fenomeno del south working iniziale. Nel terzo trimestre del 2020, ossia nella scorsa estate, infatti è emerso che gli acquisti di abitazioni ha interessato il Mezzogiorno, in maniera preponderante e nettamente superiore rispetto al Nord: si registra infatti che gli acquisti al Sud sano cresciuti dell’8,9%, mentre il mercato è andato molto più lentamente altrove con un +2,8% nel Nord-ovest, un +1,5% nel Nord-est e addirittura in calo del 1,6% al centro e di 0,7% nelle città metropolitane. Questo incremento delle vendite è un sentore del fatto che chi torna ha un forte desiderio di restare e progetta di impiantarsi in maniera stabile al sud: stiamo parlando di vendite di immobili, che comportano una scelta personale, frutto di un lungo ragionamento e quindi di una scelta consapevole e anche abbastanza definitiva; vivere al Sud pian piano non viene più considerato un “tornare indietro” e l’enorme ritorno che è stato registrato di recente non è più visto come un fallimento, ma come un profondo desiderio personale emotivo e anche economico.
Facile.it, diffusissima piattaforma online che permette di trovare, vendere, acquistare o affittare immobili in tutta Italia, quasi sostituendosi alle agenzie immobiliari, ha effettuato un’indagine mettendo a confronto le richieste di mutui e prestiti e da questa è emerso che le regioni in cui si è registrato il più alto numero di rientri sono Sardegna, Sicilia e Calabria, a netto discapito della Lombardia, del Piemonte e del Lazio, in cui si sono registrati rispettivamente partenze del 2%, 10% e addirittura 20%.
Il concetto a cui il south working aspira maggiormente a puntare è la scelta: concedere la possibilità a tutti di seguire i propri bisogni personali, i propri desideri. Grazie al south working, chi prediligeva la vita metropolitana e settentrionale ha ovviamente potuto farlo, come era anche in passato, ma la vera rivoluzione che la pandemia ha portato con sé è che anche chi aspirava a una vita meno caotica e vicina ai propri affetti, senza per questo rinunciare al lavoro sperato, ha potuto trovare un compromesso e la strada più breve per la felicità. Prima della pandemia, per quanto il progresso tecnologico sia avanzato, era impossibile anche solo immaginare soluzioni del genere, ma oggi il south working ci sta insegnando che ritornare è possibile. I vantaggi saranno diffusi ed evidenti, se si riuscirà in futuro a sfruttare con saggezza ciò che di positivo ha portato la catastrofe pandemica.
Il south working avrà un futuro? Assolutamente sì ed è auspicabile e realizzabile! Ormai il processo di cambiamento è iniziato, ma per farlo è necessario diffondere come buona norma la stipulazione di contratti di lavoro che permettano il lavoro agile, senza dover recarsi fisicamente in azienda, o quantomeno creare delle formule miste.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni