Cara, carissima sorella Silvia,
Consentimi di chiamarti così. Da diciotto mesi a questa parte tu sei amica, sorella e figlia di ogni singolo italiano in ogni angolo del mondo. Sono tua sorella, non di sangue, ma di valori. Oggi e fin da principio io ti ho chiamata e ti reputo tale, perché conosco e sento il bisogno viscerale che ti ha spinta a partire per il Kenya come cooperante, per restituire con gratitudine all’universo il privilegio immenso di essere nata in un posto sicuro circondata da affetti.
Ti immagino e rabbrividisco al pensiero che tu sia stata sottratta alla tua quotidianità per denaro, potere e guerre d’ideologia. Per cose che per te, che hai deciso di dedicare la tua esistenza al bene comune, non hanno forma, colore, spessore. Per cose che odorano di marcio.
Ti vedo nella mia mente, a Chakama, circondata da quei bambini le cui vite hai avuto appena il tempo di sfiorare, prima dell’ora zero. Vorrei dirti che oggi Chakama è in festa, proprio come Casoretto, il tuo quartiere; ma sono certa che qualcuno mi abbia anticipata.
Vorrei regalarti le mie lacrime, per compensare tutte quelle che avrai consumato in questi diciotto mesi di prigionia. Vorrei asciugare quelle che verserai quando scoprirai quante cose cattive sono state dette sul tuo conto in queste lunghe settimane in cui, invece, le persone hanno preferito aggrapparsi alla speranza che fossi ancora viva. Vorrei dirti che gli altri sono solo bestie, ma la natura ci insegna che gli animali hanno un senso di comunità molto elevato. E il dare priorità a quesiti come “quanto ci sarà costato questo riscatto?” o “non poteva limitarsi a fare volontariato vicino casa sua?” è una prerogativa del tutto (dis)umana.
Bada bene, nelle mie parole non c’è buonismo nei tuoi confronti; non è per te che provo pena o compassione, ma per loro. Per chi non è stato in grado, nei mesi della tua assenza, di provare del banalissimo rispetto per la tua persona, per la tua famiglia e i tuoi cari. Per chi non comprende che i diritti umani nascono dal dovere di non trascurare gli altri. Per chi non è in grado di restituire dignità a persone come te e come me, che in modi e modalità diversi cercano giorno per giorno di fornire strumenti solidi a chi li necessita, proprio per restituire quella dignità che invece a te è stata tolta.
Ti prego, perciò, di perdonarli tutti. Perché non è da tutti anche solo immaginare di accantonare il proprio ego per un fine ultimo più importante, ovunque questo ci possa portare, che sia Milano o Chakama, senza la pretesa di salvare nessuno, ma per dare a chiunque i mezzi per salvare sé stesso.
È vero, non sei un’eroina, ma dubito fosse quello il tuo desiderio. Sei una ventenne che volendo fare del bene in silenzio ha fatto invece chiasso per cose al di fuori del proprio controllo. Non ti dirò che ciò che è successo non sia colpa tua, perché questo già lo sai; ti chiedo soltanto di non ascoltare chi ti ha detto e ti dirà il contrario.
Noi siamo invece le braccia di tua madre che ti stringono forte, e le mani di tuo padre che ti accarezzano il volto.
Sei l’orgoglio di ogni cooperante ma anche di ogni ventenne, di tutti i Giulio che non ce l’hanno fatta e degli Zaky che stiamo ancora aspettando tornino a casa: di tutti coloro i quali sono stati in qualche modo puniti perché colpevoli di aver creduto semplicemente che esistano valori e battaglie per cui è un dovere battersi.