Italian cooperator, Silvia Romano, wearing a green tunic,reacts upon her arrival at home in Milan, Italy, 11 Maggio 2020. Silvia Romano, who was kidnapped by gunmen from an orphanage in Kenya for 18 months. Ansa/Matteo Corner

Silvia Romano / Aisha e il primo test fallito di fine-lockdown mentale

Nelle ultime settimane, siamo riusciti per un attimo quasi impercettibile a riempire il centro della scena mediatica con una notizia clamorosamente non-covid. Non ci eravamo abituati e ammetto che anche io ho trovato scomodo non inaugurare il mio approvvigionamento quotidiano di informazione con una lista di attività che si possono o non si possono fare, che peraltro come le scale di Harry Potter ha il magico potere di cambiare in modo del tutto randomico da testata a testata e di giorno in giorno.

Nel torrido pomeriggio romano del 9 maggio scorso, un tronfio Premier Conte twittava la notizia della liberazione della cooperante italiana Silvia Romano. Sorprendendo – stando ai pettegolezzi – persino un sempre sul pezzo Ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
«Una bella notizia, indubbiamente», hanno pensato i più ingenui di noi appena appresa, con il sottoscritto a fare da capofila. Dopo 18 mesi di prigionia in Somalia, Silvia Romano, la nostra connazionale rapita in Kenya dal gruppo terroristico al-Shabaab è stata finalmente liberata, capitalizzando l’intenso lavoro della nostra intelligence e l’attività di coordinamento con altre agenzie internazionali.
Quello che nessuno sospettava è che la notizia si sarebbe presto tramutata in un poco sofisticato test della personalità utile a sondare gli animi della popolazione italiana dopo due mesi esatti di cattività da lockdown. Spoiler: è finita molto male.

La scintilla che ha dato fuoco alle polveri è stata il fatto che Silvia Romano, dopo aver goduto di un anno e mezzo trascorso in stato di prigionia in almeno sei diverse location difficilmente definibili “da sogno”, ha deciso di convertirsi all’Islam. È bastato vederla scendere le scale dell’aereo che l’ha riportata in Italia con una veste tradizionale per ammainare subito le bandiere pronte all’ennesima sbalconata dell’assurdo periodo che stiamo vivendo. Da censurare anche la scelta stilistica dei principali quotidiani, che hanno deciso di destinare alla notizia della sua conversione una visibilità pari a quella data alla sua liberazione. Si fa addirittura riferimento al “giallo della conversione”, per non lesinare sulla suspence, e si preme a sottolineare il fatto che abbia deciso di farsi chiamare Aisha, come la moglie preferita di Maometto.

Non si è fatta attendere più di tanto la performance circense di alcune testate più “spinte”, con Alessandro Sallusti che dalle colonne de Il Giornale descrive quel momento scrivendo “è stato come veder tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista”.

Se la reazione a caldo di istituzioni e mondo dell’informazione nostrana si è dimostrata dunque perlomeno perfettibile, non è nulla al cospetto di quanto si è scatenato nel sottobosco dell’internet, dove un’orda inferocita di leoni da tastiera si è spellata le dita nel tentativo di esprimere il proprio disappunto per una conversione impossibile da giustificare ai loro occhi.
Altri hanno invece preferito dismettere i lisi panni da luminare virologo indossati fino al minuto prima per trasformarsi magicamente in ragionieri quantistici della Tesoreria di Stato, calcolando l’esatto importo speso dal Governo per riportare a casa questa “traditrice della Patria” e fantasticando sulle 6-7 mascherine che sarebbero riusciti a comprarci.
Sarebbe anche potuto bastare lì. Un meraviglioso divertissement che rende omaggio alla tradizione italica di litigare per qualsiasi minuzia, o il semplice insensato e barbarico esercizio di sfogo della frustrazione di due mesi trascorsi in casa senza poter incolpare nessuno (sì, beh, eccetto il laboratorio di Wuhan, il 5G, i servizi segreti deviati, le scie chimiche e per qualche strano motivo Bill Gates).

E invece no. Minacce, insulti sessisti e aggressioni verbali di ogni tipo hanno caratterizzato senza sosta i canali social della 25enne milanese fino a culminare con la bottiglia infranta contro il suo vetro da uno squilibrato randagio, ansioso di dimostrare la sorprendente connessione che sussiste tra il mondo virtuale e quello reale.
Lo stesso percorso di devirtualizzazione è stato intrapreso dal fine pensatore che ha deciso di affiggere nel quartiere milanese in cui vive Silvia Romano un volantino a nome di “Tanti di noi”, che recita: «Stufi di dover pagare i riscatti, specie di questi tempi. Salvare una vita, meritevole, per metterne a rischio molte altre? Stanchi di subire le ingerenze politiche delle ong. Buonismo, perbenismo e politicamente corretto non equivalgono a solidarietà».
Inutile a dirsi, tutto questo ha giustamente spinto la Procura di Milano ad aprire un’indagine e valutare forme di tutela volte a difenderla.
Ma in quale Paese una persona rischia di essere messa sotto scorta per il solo fatto di aver cambiato religione? Se non siete particolarmente ferrati in geografia, geopolitica e sociologia, oggi è il vostro giorno fortunato, perché da questo momento vi basterà rispondere: il nostro.
Non sono mai stato un grande fan delle scorte. Non certo perché ritenga che chi riceve minacce non debba essere tutelato e protetto, ma perché penso siano un indice evidente dell’incapacità di un sistema sociale di tutelare chi esercita un proprio diritto, sia esso di parola, di culto, etc. Se davvero il nostro Paese sarà costretto a far vivere Silvia Romano sotto scorta per il solo fatto di aver cambiato religione, saremo di fronte ad una gigantesca sconfitta sul piano culturale.
Vorrebbe dire che in tutto questo tempo non ci siamo accorti di vivere in uno stato di prigionia costituito dai nostri stessi schemi mentali, da cui ancora non siamo liberi e che in qualche modo sembra alla fine vincere sempre. Mentre l’unica persona che oggi può dirsi davvero libera è proprio Aisha.

Siamo riusciti in definitiva a rovinare l’unica buona notizia da diverse settimane a questa parte. Perché anche se, con tutte le cautele del caso, stiamo tornando a uscire di casa, nulla sembra si possa più fare per il lockdown mentale che ci affligge.

Crediti immagine: ANSA
Già pubblicato su Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei Ventenni 1/6/2020