Ci si circonda di miti da idolatrare perché il bisogno di essere compresi è più forte del bisogno di comprendere. Alcuni di loro sono più vicini a ciò che siamo, tanti altri esprimono ciò che vorremmo essere. Si tende ad enfatizzarli, a renderli divini, tanto da rappresentare l’irraggiungibile e non più il realizzabile.
Con questo senso di immaturità mi avvicinai a Fabrizio De André, con l’ingenuità di chi crede di aver trovato la comprensione universale di tutto già ad otto anni, invece fatica a staccarsi dall’irreale ora come allora.
In macchina, la sua voce accompagnava ogni viaggio, lungo e breve fosse stato. Mi veniva già chiesta una capacità di analisi che non avevo affatto ma volevo dimostrare a mio padre che possedevo quella giusta maturità psicologica ed artistica per capirlo. Così cominciai ad ascoltarlo anche quando lui non c’era, così da essere pronta se mi fosse stato chiesto qualcosa sulle sue canzoni.
Seppur mi senta immersa totalmente nella sua musica, mi è sempre stato difficile parlare di De André, forse per paura di banalizzarlo, forse per non rischiare di renderlo quasi beato.
Parlarne con parole futili mi allontanerebbe da ciò che lascia costantemente dentro di me, persino quando mi chiedono “quale pezzo preferisci?”, rispondo con voce ferma che ogni canzone ha la sua natura, racconta qualcosa di una storia vissuta dal singolo ma rappresentata dal collettivo, ha dato parola a qualcuno e qualcosa, così esplicitamente lontano dall’oggi che sembra essere stato scritto metaforicamente per un tempo indefinito ma percepibile nel presente.
La primordiale sensazione di una emozione che pervade l’animo: è questo il primo ricordo che ho durante l’ascolto di una sua canzone. “La canzone del padre” il titolo, “Storia di un impiegato” l’album del 1973 che la contiene. Da molti definito il suo album più politico, totalmente privato della sua essenza e sbattuto all’interno di lotte di potere proprie di quel tempo. La storia di maturazione del protagonista dell’album, che rinnega ciò che fino a quel punto è stato, alla ricerca di un proprio punto di equilibrio, nell’oscillazione tra la presa di coscienza del mondo e la rassegnazione del non saperlo vivere fino in fondo, tutto raccontato con un rapido susseguirsi di fatti concreti ed immagini oniriche.
Io ascoltai questa canzone durante il solito viaggio, qualche mese prima della sua morte. Avevo sei anni. Probabilmente l’avevo già ascoltata in momenti antecedenti ma il primo ricordo nitido è di quel momento, la memoria gioca furbamente e manipola il tuo essere concedendo solo i ricordi che preferisce. Era il crepuscolo, c’erano sempre dei monti a circondare i nostri tragitti.
La canzone si apre con una domanda: “vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi solo i sogni che non fanno svegliare?”, l’incrocio onnipresente nella vita di ognuno, la scelta di inseguire utopie e desideri o trovare una propria dimensione in un posto che non ci rappresenta abbastanza ma ci permette di agire entro un certo limite, l’accontentarsi nello spazio sociale che ci viene concesso senza disturbare i “grandi” e controllando i “piccoli”. La metafora sociale che sussiste ancora oggi, con quasi più prepotenza. Io già allora rimasi colpita dalla frase “E scappò via con la paura di arrugginire, il giornale di ieri lo dà morto arrugginito, i becchini ne raccolgono spesso fra la gente che si lascia piovere addosso“, metafora di come in determinati momenti, la vita quale pioggia venga accolta e lasciata scivolare addosso così tanto passivamente da arrugginirci in maniera indelebile. L’intera canzone gioca sull’individualità del singolo e il continuo inseguimento della collettività sociale, lottando da quale parte di sé stessi si vuole scegliere definitivamente.
Andando oltre il significato immenso che possiede, il legame stretto che sento verso questa composizione risiede principalmente nel suo suono ipnotico, che mi cattura e mi rimanda a mio padre, rimandandomi anche a Fabrizio, altro tipo di padre. L’ho sempre percepito come quella persona in famiglia che muore troppo presto per essere vissuta a pieno ma di cui tutti conservano un ricordo, bello o brutto, ma sempre unico. Forse non avrebbe mai desiderato questo per sé stesso, scriveva per raccontare e raccontarsi, per liberarsi, non per essere un simbolo. Eppure, simbolicamente, sei il padre privo di giudizi che ti aiuta a muovere quei passi la cui forza per farli è presente dentro di noi.
L’aver dato voce a mondi apparentemente diversi ma perfettamente intersecabili, l’ha reso lo sguardo che in qualche modo ti assolve dall’autocolpevolizzazione quotidiana che ci infliggiamo.
Personalmente, sei ovunque, pronto a darmi un lieve e temporaneo conforto, quando non ci riesce nient’altro. Allevi il mio senso di colpa, la più futile espressione ridicola o spaventosa della mia mente, la dannazione eterna del peso di qualcosa di indissolubile.
Oggi sei tutto ciò che sei stato al primo ascolto, l’intensa emozione che provochi mi invade, cambia solo il diverso periodo della vita che accompagni.
Oggi, 21 anni sono passati, e passerà l’ennesimo senza avere la possibilità di conoscere altro di te se non quello che già si comprende, continuerò a leggerti per sperare nella piccola fortuna di scovare qualche altro significato nascosto parafrasando l’incrocio delle tue parole con il vissuto di chiunque; così rimani sempre il mio nervo scoperto che felicemente non rimarginerò, pronta a farmi bruciare nuovamente ed eternamente dalla tua voce.