Qualche tempo fa si sentiva spesso parlare di fuga di cervelli. Oggi questa espressione è talmente inflazionata che, a sentirla, risulta riduttiva, banale e un po’ retro. La verità è che avere un cervello ormai, al Nord come al Sud, è scontato. E a indicare questa moderna ondata di emigrazione con il termine fuga si commette un grave errore. Perché non si tratta più di una fuga per scelta, ma di una costrizione.
I giovani di oggi, prima ancora di iniziare il liceo, sanno già che davanti a loro si prospetta una guerra del tutto personale. E a mo di esercito ci si predispone in file allineate e ci si dota di due delle armi più distruttive dei nostri tempi: la passione e il coraggio. La passione, il coraggio. Due parole che messe insieme creano una bomba letale che distrugge e conquista tutto ciò che trova davanti a sé.
E proprio come avviene in una guerra, i ventenni di oggi combattono la loro battaglia personale. Li vedi lì, tutti in fila, mentre prima con un piede poi con l’altro salgono sugli autobus e i treni verso Pavia, Milano, Bologna con il sorriso sulle labbra e lo sguardo un po’ spento. Salutano i parenti con la mano, Brunori nelle cuffie e qualche pezzo di cuore lasciato a casa della nonna. Ancora l’odore di polpette al sugo nelle narici e il ricordo di quel momento del loro ritorno a casa in cui hanno chiuso gli occhi cercando di imprimere quel dipinto nel loro cervello, come una fotografia da portare a casa, la nuova casa. La mia, per esempio, è Milano.
Milano è una città caotica, sfavillante, piena di opportunità per i giovani. La città dell’ape sui Navigli, della piada veloce in pausa pranzo e del cappuccio al bar sotto casa. La città che, nel lontano 2009, sembrava grandissima ai miei occhi e che oggi invece riesco ad attraversare a occhi chiusi, a piedi, senza l’aiuto di Google Maps. Se ci ripenso, sembra ieri quando presi per la prima volta quell’autobus verso il Nord, con tante speranze e sogni nella testa. Non sto qui a raccontare gli ultimi dieci anni della mia vita, rischierei di annoiarvi, ma se dovessi pormi la fatidica domanda “hai ottenuto quello che volevi?” la risposta sarebbe sicuramente affermativa, al 90%. Lo studio mi ha levato spesso il sonno, i colloqui mi hanno trascinata da una parte all’altra di Milano nello stesso giorno, il lavoro, quello che al Sud dicono sia solo una leggenda, mi ha formata e fatta crescere come professionista e come donna. Mi sono confrontata con persone straordinarie, menti a tratti geniali, professionisti di spessore. Ho imparato a riconoscere e ad apprezzare il talento nelle persone. Ho intravisto, ammirato e appreso le caratteristiche e le doti migliori nelle persone e nei colleghi che ho incontrato nella mia (ancora breve) carriera lavorativa. Poi queste stesse doti le ho messe in pratica nel mio lavoro, sempre con umiltà. E passando da una scrivania all’altra, cambiavo, mi evolvevo, combattevo per garantire a me stessa un futuro migliore. Quello che qui al Sud ci hanno negato, vicino ai nostri affetti e ai nostri luoghi, che sarebbe di gran lunga migliore.
Allora a volte, nel buio della mia stanza, ascoltando il rumore del tram sulle rotaie, mi chiedo “hai ottenuto quello che volevi?”, la risposta è ancora oggi affermativa, ma al 90%. In quel 10% c’è tutta la nostalgia per quella che io chiamo casa, insieme alla delusione verso un territorio tanto ricco di risorse quanto stupido nel sprecarle o farle andare via.
E la notte sogno un Esercito del Sud che resta, invece di partire. Che mette in campo le sue armi migliori per le aziende della propria terra, per farle crescere e moltiplicare. Un Esercito, come quello di Venti, l’Associazione di cui faccio orgogliosamente parte, che fa sentire la propria voce, usa i mezzi di comunicazione a sua disposizione per raccontare la propria storia e far valere quelle che sono le sue armi migliori, con passione e coraggio.