Nel periodo di quarantena, aprire i social è stato deleterio e consolatorio: deleterio perché siamo stati letteralmente bombardati di notizie sulla pandemia, report sui trasgressori e ricette di cucina irrealizzabili; consolatorio perché bastava vedere la foto di un balcone o di un giardino delle case degli altri per sentirci meno soli. Sono state spese così tante – troppe – parole su come sarebbe stato bello dopo e su come tutto sarebbe cambiato in meglio, che quando questo dopo è arrivato, non me ne sono neanche accorta. Forse perché, in realtà, non è cambiato assolutamente nulla.
Non credo che il periodo di isolamento, contrariamente a come credevo, abbia portato un significativo mutamento nelle nostre vite. Di certo ha influito sulla nostra quotidianità e percezione del tempo, ma, alla fine, quasi tutto è rimasto intatto. L’impressione è stata quella che si avverte quando si lascia casa per un periodo di tempo: una volta tornati, benché le cose siano rimaste esattamente dov’erano, ci sembrano tutte in disordine.
La retorica mielosa e ridondante da coronavirus è servita a mantenere calmi gli spiriti, a darci l’illusione che, finalmente, fosse giunto il nostro momento per cambiare le cose e reinventarci. Persino io, che su questo periodo avevo investito tanto, non mi sento poi tanto diversa. Potrebbe essere presto per riflettere sugli effetti concreti che la quarantena e la pandemia hanno sortito su di noi, dal momento che ancora non si distinguono bene i contorni di questa realtà sfumata. Trovo anche estremamente difficile ripensare alla mia vita in quarantena, perché, al di là di alcuni tasselli, lentamente, mi sono riappropriata delle cose “della vita di prima” che mi mancavano di più.
Mi sforzo di recuperare i propositi, buoni e bellissimi, che mi ero prefissata a marzo, ma mi ritrovo solo un mucchio di parole messe lì a casaccio. Temo di aver vissuto un secondo Capodanno, un altro 31 dicembre in cui tirare le somme, guardarmi allo specchio e accettare che un cambiamento fosse assolutamente necessario. Avete presente cosa intendo, no? Quella convinzione di dover necessariamente svestirsi di abitudini datate e tossiche per dar vita ad un percorso di riconoscimento e impegno che si nutre di cose nuove. Tutte intenzioni che, ovviamente, la quotidianità frenetica e affannosa non ci permettevano di mettere in pratica.
Quest’anno, però, abbiamo avuto una seconda chance. Giorno dopo giorno, il mondo intero si è trovato a dover combattere un nemico comune, ad unirsi con lo spirito e gli slogan per fronteggiare il male senza volto. Esercizio fisico, abitudini alimentari più sane, meno peso al lavoro e più ai rapporti umani… In sostanza, il lockdown ci ha fornito l’assist perfetto per farci credere che una vita diversa potesse essere possibile – per non dire obbligatoria. Siamo diventati cuochi e santi, eroi e sceriffi, amici di tutti e donatori delle campagne fondi. Abbiamo creduto, per un po’ di tempo, di essere diventate persone migliori, più concrete e consapevoli di cosa significhino sacrificio e paura di perdere. Ci siamo avvicinati gli uni agli altri con le parole, alleate efficaci e confortanti, che ci hanno convinto che sì, saremmo stati più forti, che sì ci saremmo rialzati, che sì, saremmo stati diversi. Ma non si può essere diversi da noi stessi se certi dolori, certe sofferenze, non ci entrano in casa. E seppure il bollettino delle 18 tuonava sui televisori di tutti, tra angoscia e paura, la sera si riusciva comunque a dormire.
Per lungo tempo, mi sono rimessa alle parole cariche di fiducia dello scrittore David Grossman, il quale vedeva nella pandemia un evento formativo che avrebbe portato dei cambiamenti radicali per tutti. Ci sarebbe stato chi avrebbe lasciato il lavoro, chi avrebbe lasciato il partner, chi avrebbe iniziato a credere in Dio, chi si sarebbe posto sulle decisioni prese nel passato, chi avrebbe vissuto amori e vite che non aveva mai osato vivere. Ho sperato davvero che potesse essere così, soprattutto perché, egoisticamente, avevo bisogno di una motivazione forte che mi convincesse che io, per prima, sarei riuscita in almeno uno dei miei obiettivi.
Invece, sono uscita dalla quarantena col colore di capelli sbagliato e ignoranza assoluta sul processo di lievitazione della pasta per la pizza. Mi chiedo, allora, che fine abbiano fatto le parole della speranza, del “ce la faremo”? Tre mesi fa ne avevamo bisogno per assicurarci di arrivare tutti interi al giorno dopo, oggi non mi sembra che stiamo messi tanto meglio. Eppure, penso che sia proprio questo, il momento in cui abbiamo più necessità di un sostengo, di sentirci dire “a poco a poco, senza fretta”. Per la maggior parte di noi, tutto è tornato a scorrere, anche col coronavirus dietro l’angolo.
La vita di prima, agognata, sperata, desiderata, è tornata anch’essa ad un metro di distanza. E adesso? Zerocalcare ha brillantemente detto che “stiamo tutti a cocci in questa bolla” e che la fine della quarantena sarebbe stata difficile perché non avremmo potuto accollare i cocci della nostra vita al coronavirus. Ecco, io mi sento così, con un peso sullo stomaco che non è più soltanto la paura del contagio, ma è il timore di riprendere in mano i miei cocci, molto taglienti, e rimetterli insieme, da sola, senza più scuse. Come il 1° gennaio, quando il vecchio anno finisce e non ci sono altre giustificazioni per non ricominciare.
Siamo davvero diventati più buoni, disponibili ed onesti? La tragedia vissuta ci ha davvero fatto aprire gli occhi sul nostro egoismo imperante? Abbiamo davvero imparato qualcosa? Ce l’abbiamo fatta, davvero? Molti indizi mi fanno presumere di no, e che, al contrario, siamo diventati più individualisti di prima. L’esperienza di un dolore universale non ci ha fatto rendere conto della deriva e miseria a cui siamo arrivati, perché prima di esserci un dolore universale, ci siamo noi con i nostri carichi da portare sulle spalle. E questo verrà sempre prima di tutto il resto. Historia magistra vitae, magari.
Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud di lunedì 15/06/2020