People in the city. Persons in a masks. Coronavirus theme. Friends walks during quarantine.

Sarà davvero un ritorno alla normalità?

La campagna vaccinale è entrata nel vivo, alcune regioni sono già passate alla cosiddetta zona bianca ed entro due settimane diremo addio anche al coprifuoco. Stiamo davvero tornando alla normalità o dovremo riscrivere il significato stesso di questa parola?

Le restrizioni imposte dalla pandemia iniziano e stiamo tornando alla socialità: ora possiamo, più o meno liberamente, spostarci tra regioni, incontrare congiunti e non, andare al cinema o al museo, gustare un caffè al bar, magari cenare fuori.
Non dobbiamo però commettere l’errore di credere che sia tutto come prima. Non si tratta solo di indossare ancora la mascherina, igienizzare spesso le mani, rispettare la distanza minima di sicurezza, bensì di sperimentare l’uscita dall’ambiente protettivo che abbiamo costruito negli ultimi quindici mesi e vedere cosa c’è là fuori. I lockdown e il timore del contagio hanno ridotto drasticamente i nostri contatti con il mondo esterno e se da un lato sono stati assolutamente necessari, dall’altro hanno creato incertezza, angoscia e situazioni difficili da gestire soprattutto per i più giovani, categoria troppo spesso dimenticata e talvolta accusata di essere responsabile della diffusione del virus. Ricorderemo tutti il dito puntato contro la cosiddetta movida, mentre i protocolli per la gestione del rientro a lavoro tardavano ad arrivare o, peggio ancora, a essere applicati. E poi ancora la DAD, lo smart working, il concetto di “digitale è reale” con cui imparare a fare davvero i conti, le varianti, le difficoltà economiche e sociali, la seconda e terza ondata. Tuttavia, siamo programmati per sopravvivere: in caso di pericolo, l’amigdala reagisce facendo entrare in circolo l’adrenalina, che ci rende pronti a scappare, immobilizzarci o combattere. Questa reazione, detta anche paura reattiva, ci ha accompagnato così a lungo da diventare stress cronico e l’amigdala, in queste condizioni, tende a prevalere sulla corteccia perifrontale, quella parte del cervello preposta alle funzioni decisionali ed esecutive. Pianificando e ragionando, anche la corteccia perifrontale ci aiuta a sopravvivere, ma lo stato di incertezza che perdura sfocia in quella che è già stata denominata “ansia da COVID-19”, una sindrome caratterizzata da comportamenti reattivi che si manifestano nell’evitare i luoghi pubblici, nella paura di uscire e di contrarre il virus. Tra questa e altre forme di malessere e il benessere, alcuni di noi sperimentano invece il cosiddetto languishing, una forma di torpore emotivo caratterizzato da abbattimento, scarsa vitalità e fiacchezza.

E mentre i dati dei contagi scivolano nelle pagine centrali dei giornali, le premesse sul PIL migliorano, i vaccini occupano gran parte delle nostre conversazioni, quasi ci azzardiamo a guardare all’estate che avanza e torniamo a casa alle 23 sentendoci di nuovo ragazzini con ritmi imposti da altri, mi rendo conto che siamo entrati nel “dopo”. Impacciati, frastornati, spaventati, a tratti dubbiosi, eppure curiosi: cosa succederà? Cosa cambierà, sempre ammesso che qualcosa cambi davvero? Sento dire che ricominceremo da dove ci siamo interrotti, ma non mi sembra una prospettiva poi così allettante. Come scriveva pochi giorni fa Alessandro Baricco, «sono passati cinque anni in uno. Come in un racconto di Philip K. Dick, s’è formata una crepa temporale e lì dentro abbiamo vissuto cinque anni in uno». Dopo un simile salto temporale, sembra tutto stantio, caotico, in affannato ritardo rispetto alle nostre ambizioni. Sembra ed è tutto da riscrivere, anche la normalità, perché il prima non esiste più. Meno male.


Già pubblicato su L’Altravoce dei Ventenni-Quotidiano del Sud 07/06/2021

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