Nel settantaquattresimo anniversario della festa della Repubblica, ci ritroviamo in un momento storico in cui le parole d’ordine sono ripartire e ricostruire. Prossimi alla fine concreta del lockdown causato dall’emergenza sanitaria che ci ha colpito, abbiamo la necessità di andare avanti, per superare un periodo tanto inaspettato quanto fuori dall’ordinario. Vogliamo e dobbiamo ricominciare dopo essere stati sbalzati dall’oggi al domani in una realtà a noi sconosciuta e paradossale.
Per questo non vogliamo guardarci indietro, convinti che per ricostruire ci serva solo guardare al futuro.
Perciò, se dobbiamo guardare avanti, perché celebrare anche quest’anno la festa della Repubblica? Non dovremmo progettare piuttosto che ricordare? Che bisogno c’è di sottolineare puntualmente il fatto che siamo un Paese libero e democratico, con diritti e doveri che proteggono e accudiscono le libertà di ogni singolo individuo? Giunti a questo settantaquattresimo anniversario, dovremmo aver finalmente capito il nesso tra ieri e domani; ma se così non è, riavvolgiamo il nastro.
Siamo stati un popolo soggetto a numerosi divieti, primo fra tutti quello di assembramento. Ci è stata a lungo negata la possibilità di congiungerci gli uni con gli altri, di ritrovarci in gruppo in mezzo a una piazza senza lecita motivazione. Siamo stati costretti ad obbedire a questi divieti per paura di essere puniti, o peggio. Abbiamo coltivato in silenzio il bisogno di evadere da quella prigione. Del resto erano gli anni ’40 del secolo scorso e la libertà era solo una canzone di Gaber che non era ancora stata scritta.
Pensavate mi stessi riferendo all’odierna emergenza sanitaria? È comprensibile; ma la verità è che gli impedimenti reali di una collettività sono ben altri e la festa della Repubblica è lì per ricordarci proprio questo.
Settantaquattro anni fa è stata fatta una scelta di cui noi siamo il prodotto ingrato, irriconoscente, ignaro.
Perché la libertà, la libertà di prediligere, di prendere una decisione per sé e per gli altri – anche nota come democrazia – è tanto una scelta quotidiana quanto un sacrificio del proprio io per senso di responsabilità nei confronti della comunità. Una comunità che si traduce nella figura di parenti, amici, estranei con cui condividiamo una casa, una strada, un treno.
Ma cosa ne sappiamo noi oggi di cosa voglia dire tutto questo? In effetti, cos’è successo in questi settantaquattr’anni di democrazia? Forse non tutti abbiamo curato abbastanza bene le nostre radici, o semplicemente non abbiamo mai capito finanche di averne.
Ci affanniamo ad urlare ai quattro venti che la democrazia non ci appartiene, che ci è stata portata dagli Americani, che quando c’era Benito si stava tutti un po’ meglio. Siamo come una pianta strappata dal vecchio vaso e trapiantata in uno nuovo, alimentata da fertilizzanti generici e qualunquisti, con le radici lasciate a marcire nel vecchio terriccio.
Reduci da un breve periodo di proibizioni e negazioni, diciamo di sentirci pronti a ripartire perché abbiamo vissuto sulla nostra pelle quella che crediamo essere la quintessenza della limitazione. Ma la verità è che siamo fragili, perché dopo tutto questo tempo non capiamo ancora da dove veniamo e come siamo arrivati fin qui oggi.
Siamo dei privilegiati. Siamo nati tra le pagine già scritte di una Costituzione che ci tutela in ogni nostra forma, colore, sfumatura d’identità, come una madre che ama i suoi figli a prescindere dalle loro differenze. Quella stessa madre che bistrattiamo perché, in fin dei conti, non la capiamo più di tanto. Siamo nati sotto una stella fortunata, nel posto giusto, al momento giusto e siamo convinti che basti questo per non interrogarci sul peso storico che la Nazione si porta realmente sulle spalle. Non vogliamo sapere, perché crediamo non ci riguardi.
Non comprendiamo cosa abbia significato, settantaquattro anni fa, scegliere la democrazia, quella stessa democrazia che usiamo come scudo quando diciamo tutto quello che ci passa per la testa senza pesare le parole.
Quella democrazia che insultiamo quando regaliamo il voto al cugino del nipote dello zio del vicino di casa, non perché crediamo conosca quale possa essere il bene comune, ma perché in cambio assumerà nostro fratello come assessore ai beni culturali del comune locale.
Quella democrazia che crediamo sia stata violata perché per qualche mese ci è stato chiesto di mettere da parte il nostro individualismo e attendere un po’ prima di andare a bere una birra in piazzetta con gli amici, solo per non rischiare di ammalarci o di far ammalare gli altri.
Perciò, se credete che questo sia un Paese pronto a ripartire, vi invito a rifletterci bene. Una persona non sarà mai in grado di capire dove stia realmente andando senza prima voltarsi indietro e sentire sotto la propria pelle e nella propria anima quanta strada sia stata percorsa per lei, quale sia stato il prezzo e quanto sangue e sudore siano stati versati per garantire la sua libertà.
E se questo spirito iniziate a sentirlo dentro di voi, come un germoglio, innaffiatelo volgendo il vostro pensiero alle forze dell’ordine e, più in generale, a chi oggi non può trovarsi ai Fori Imperiali per celebrare e rinnovare la decisione che presero i nostri bisnonni quel 2 giugno 1946 scegliendo di votare con l’Italia e per l’Italia.
Fatelo nel rispetto di ognuna di queste persone che ogni giorno rifiuta l’idea di rendere vana una scelta che sente profondamente sua, per quanto settantaquattro anni fa non abbia apposto in prima persona quella famosa croce su quella famosa scheda elettorale.
Perché ognuna di queste persone comprende e abbraccia la necessità di rinunciare al momento celebrativo più alto e simbolico del proprio impegno quotidiano; e lo fa precisamente in nome del suo amore per questo Paese e per chi ne fa parte.
E noi non possiamo fare altro che tenere alta la testa e cantare a gran voce l’Inno di Mameli. Questa volta, magari, capendone realmente le parole.
Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud – l’AltraVoce dell’Italia di lunedì 01/06/2020