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Quattro chiacchiere con il regista Danilo Amato

Ore diciotto e quindici di un lunedì che sa davvero troppo di lunedì, quando mi dirigo, con il mio solito ritardo, al bar in cui mi aspetta Danilo.
Sono sveglia dalle sette per rientrare nella Capitale e affrontare una giornata alquanto intensa in università. Anche se dura solo un’oretta, non conta. È sempre un viaggio ogni volta che ritorno da Napoli, forse più “spirituale” che fisico.

Arrivata, decidiamo insieme di ordinare uno spritz, nel mentre ci presentiamo. Io, ovviamente parto avvantaggiata: già so qualcosa di lui. Quello che però ancora non so è che la mia giornata non è volta al termine, mi manca ancora un viaggio: quello insieme a lui in questo mondo a me quasi sconosciuto, dal momento che questo ragazzo di ventisei anni seduto di fronte a me ha un’ardente passione – corredata da cultura e una certa “esperienza” – per il mondo del cinema.

Danilo è cosentino, nato e cresciuto in una cittadina di nome Belsito. Si è diplomato al liceo classico e ha deciso, con grande sostegno da parte della famiglia, di trasferirsi a Roma per frequentare alla Sapienza Arti e Scienze dello spettacolo, per poi specializzarsi nel Teatro Cinema Danza e Arti digitali.

Nel raccontarmi di sé mi rivela che questa sua passione – “c’è sempre stata”– sempre presente, ma molto probabilmente è venuta fuori grazie alla libreria di suo papà. Questa però, a differenza di quella di casa mia, ha sempre ospitato innumerevoli videocassette e DVD.

– “Jurassic park di Spielberg è stato il mio primo film, ma il vero cambio di prospettiva l’ho avuto grazie ai capolavori di Dario Argento, in particolare Suspiria.”

-“In che senso?” – gli ho chiesto senza indugiare.

In tutti i sensi, grazie a lui, masticando anche la materia, ho incominciato a guardare da un altro punto di vista il cinema. Non mi sono più soffermato sulla narrazione, ma ho incominciato a guardarlo in modo tecnico, registico: le inquadrature, l’uso della luce e tutto ciò che riguarda il mettere in scena”.

Probabilmente arrossendo, ho messo a nudo la mia ignoranza in materia e gli ho chiesto nello specifico quale fosse il vero lavoro del regista rispetto a quello dello sceneggiatore, e Danilo, come se si rivolgesse alla Tania bambina e curiosa, con un dolce sorriso mi ha risposto “guarda che non è una differenza che tutti sanno, anche perché il più delle volte coincidono, pensa a Sorrentino, lui per esempio è il re del cinema d’autore. Nello specifico il regista è colui che mette in scena quello che lo sceneggiatore ha scritto”.

È stato in quel momento che ho lanciato la bomba:“ e tu cosa vorresti fare da grande?”

Eccola qui, la riconosco: è la classica espressione di chi ha un sogno, ma ha quasi paura di dirlo ad alta voce. Si prende una pausa, fa un sorso e inizia a raccontarmi che ha avuto “esperienza” in entrambi i campi, ma che diventare regista è il suo più grande sogno.

– “Che tipo di esperienza?”- gli chiedo ancora più incuriosita.

Mi rivela che diversi anni fa ha fatto parte di una compagnia teatrale amatoriale e che il teatro è stato per lui un momento di grande crescita, dove il contatto con il pubblico è reale, vivo, dove non si può sbagliare, ma che non era quella la sua strada.

E da lì mi racconta che già da ragazzetto si divertiva molto a giocare con windows movie maker e che catturare momenti ed emozioni lo appassiona così tanto che nel 2014 realizza Fuori luogo il suo primo cortometraggio , la sua “opera giovanile” che tratta di un ragazzo che frequentando da anni lo stesso gruppo di amici “incomincia a sentirsi stretto” e riflette su una via d’uscita.

Successivamente ha realizzato “‘Na cosa semplice” lungometraggio che ha scritto e diretto, incentrato sul dialetto e sulla perdita delle tradizioni della sua città natia, ispirato alla tesi sulla grammatica del dialetto belsitese redatta nel 1971 da Raffaele Ortale, e prossimamente sarà online il suo ultimo lavoro Hades, interamente autofinanziato. Hades è un teaser che, per chi non lo sapesse, è una sorta di campagna pubblicitaria preliminare, cui farà necessariamente seguito una seconda campagna che meglio svelerà di cosa si tratta, ma, ovviamente da curiosona quale sono, mi sono fatta rivelare il topic: la comunicazione ultraterrena.

“L’idea è quella di mettere insieme provincialismo e fantascienza” mi ha detto con occhi fervidi mentre mi rivelava qualche altro dettaglio.

Abbiamo continuato a parlare, a scambiarci opinioni su vari film e soprattutto mi ha lasciato raccogliere una serie di informazioni che mi hanno fatto capire che in un certo qual modo per lui il cinema è quello che per me è il diritto, ma ne volevo la conferma, così, ostinata quale sono ho continuato con le domande: “Cos’è per te il cinema?” Questa volta quello in imbarazzo, stranamente, è lui.

Respira profondamente e parte: “Il cinema è sicuramente un’arte…” – continua- “penso che sia un modo di evadere dalla realtà, ma allo stesso tempo una spinta ad emozionarsi, come ha detto Christopher Nolan, il regista di Interstellar, Inception e tanti altri. Il fatto è che ogni tanto il cinema lo si odia, perché sai, è un mondo difficile, un mondo di cui vorrei fare parte, ma ancora non riesco. E allora lo odio, ma allo stesso tempo sono grato di questo perché mi spinge a fare sempre di più, sempre meglio!

“E cosa pensi dei film?” è stata la domanda successiva.

“Ogni film poi ha la sua storia, ma io credo che sia necessario prima di tutto essere spettatori e poi narratori per essere dei grandi autori di film, anche perché quando si lavora per il cinema sai che quello che scrivi avrà a che fare con altre realtà e altre persone.  Allora io sempre mi chiedo, quando scrivo qualcosa, se sono chiaro, se posso arrivare al pubblico, se mi possono davvero capire o se comunque riesco davvero ad emozionarli.”

“E credi di riuscirci?” gli chiedo provocatoriamente.

Ah io di questo non ne sono certo, posso sperarlo, ma di sicuro, quello che ogni volta si emoziona sono io!”

Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud – l’Altra voce dei Ventenni di lunedì 18/11/2019

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