Bernardo Provenzano, anche detto Binnu u’Tratturi è stato così soprannominato per la sua ferocia nel commettere omicidi.
Nato a Corleone, in Sicilia il 31 gennaio del 1933, è stato un mafioso italiano, membro di Cosa Nostra e delle stessa a partire dal 1995 reggente. La sua propensione a delinquere emerse già in gioventù quando Bernardo lasciò la scuola, non finendo neanche la seconda elementare, e si dedicò ad una serie di attività illecite come: furto di bestiame e di generi alimentari.
Negli anni a seguire, insieme a lui crebbe anche la gravità dei suoi reati e dal 1954 iniziò ad occuparsi della macellazione clandestina di bestiame rubato, affiliandosi nel frattempo alla cosca mafiosa locale retta da Luciano Liggio.
All’inizio degli anni Sessanta, Provenzano venne denunciato dai Carabinieri di Corleone per l’omicidio di Paolo Streva, un mafioso affiliato ad un clan contrapposto (clan di Michele Navarra) a quello di cui faceva parte Provenzano (clan di Liggio), oltre alle accuse di omicidio mosse nei suoi confronti venne accusato anche per associazione a delinquere e detenzione abusiva di armi.
Da queste accuse, avutesi nel 1963, iniziò la lunga latitanza in cui i Ros (raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri) hanno avuto un ruolo ambiguo.
A seguito delle efferate stragi avutesi negli anni ‘90, iniziò una trattativa tra lo Stato e la Mafia, che aveva ad oggetto la conclusione della fase stragista in favore di alcune concessione che la mafia richiedeva agli alti vertici politici tramite un apposito papello.
Il papello fu redatto da Toto Riina e per mezzo di Vito Ciancimino (ex sindaco di Palermo e amico intimo di Provenzano) giunse al generale comandante dei Ros Mario Mori, che avrebbe poi avuto il compito di farlo arrivare nelle mani degli alti vertici politici del tempo.
In quella occasione Ciancimino, leggendo le richieste mosse da Riina come ad esempio: revisione della sentenza maxi-processo, abolizione del 41bis, abolizione della legge Rogoni – La Torre, ecc, si rese conto dell’impossibilità per lo Stato di accettare le richieste di Riina e redasse una proposta più moderata il c.d. contro papello.
Ciancimino sottolineò tra l’altro che persino Bernardo Provenzano si era reso conto dell’assurdità delle richieste avanzante da Riina. Il lato moderato di Provenzano emergerà anche in occasione della disputa avutasi tra Bagarella (cognato di Riina) e Provenzano stesso che aveva ad oggetto la cessazione delle stragi. Dove Provenzano era a favore della cessazione e Bagarella no.
Sarebbe stato proprio questo suo spirito da paciere ad incastrarlo se i Ros non fossero stati guidati da Mario Mori poi indagato per presunta collusione con la mafia.
È il momento di presentare la figura di Luigi Ilardo che risulterà più o meno un infiltrato prezioso per i Ros.
Luigi Ilardo fu un reggente mafioso della provincia di Caltanissetta, che nel settembre del 1993 decise di collaborare con lo Stato.
La collaborazione di Ilardo fu fondamentale in quanto era riuscito a diventare capo mandamento di Caltanisetta e dunque in quanto reggente partecipava alle riunioni della cupola, mettendo al corrente il colonnello Michele Riccio dei vari piani di Cosa Nostra.
La collaborazione di Ilardo con Riccio durò per bene tre anni, e portò all’arresto di decine e decine di boss mafiosi. Come detto in precedenza Provenzano risultava essere un buon moderatore ed in caso di problemi tra diversi Boss si prestava come paciere. Cosi Ilardo, fingendo un problema per cui risultasse necessaria la presenza di Provenzano (che nel frattempo era divenuto il capo di Cosa Nostra, dato l’arresto di Totò Riina) organizzò un incontro con lo stesso che risultava latitante ormai da molteplice tempo.
Ilardo dunque mise al corrente Riccio dell’incontro che si sarebbe dovuto tenere il 31 ottobre del 1995 in un casolare di Mezzojuso (PA). Riccio, ingenuamente pensò che quello potesse essere il momento adeguato ad arrestare Provenzano, ed informò i suoi superiori: i colonnelli Mario Mori e Mauro Obinu.
I due colonnelli, tuttavia furono di diverso avviso e intimarono Riccio, appostato nei dintorni del casolare dove si trovava Provenzano, di non intervenire. Bernardo Provenzano, continuò a frequentare indisturbato, al dire del Riccio, il casolare per ulteriori sei anni.
Nel frattempo, Luigi Ilardo formalizzò la sua collaborazione con la giustizia il 2 maggio del 1996 e si presentò al cospetto dei magistrati Caselli, Principato e Tinebra, a Roma per raccontare tutti i piani e i legami di Cosa Nostra.
Il magistrato Tinebra, nei cui confronti Ilardo diffidava particolarmente, interruppe il colloquio che sarebbe dovuto continuare nei giorni a seguire. Il 10 maggio, il colonnello Riccio viene informato di una fuga di notizie dalla Procura di Caltanissetta, in merito al fatto che Ilardo stesse collaborando.
Il 14 maggio alle ore 21:30 Ilardo viene assassinato con otto colpi di pistola a Catania. Del colloquio di Ilardo con Caselli, Principato e Tinebra, non risultano esserci registrazioni o verbalizzazioni.
Il colonnello Riccio, disattendendo i consigli di Tinebra sulla non necessaria registrazione degli incontri, ebbe comunque la prontezza di registrare alcune delle conversazioni avutesi con l’Ilardo. Riccio così con il materiale raccolto fece un rapporto informativo che venne chiamato il “Grande Oriente”.
Mori e Obinu, i superiori che non gli avevano permesso di arrestare Bernardo Provenzano, intimarono più volte Riccio di non fare rapporto, o comunque di oscurare alcune vicende o alcuni nomi.
Mori insieme al colonnello Mauro Obinu saranno rinviati a giudizio per aver favorito la latitanza di Provenzano ma verranno poi assolti dal Tribunale di Palermo il 17 luglio del 2013.
Il Tribunale di Palermo ha sentenziato che i fatti imputati agli stessi fossero di lieve entità, assolvendo i due con formula piena. La procura ha comunque proposto appello avverso la sentenza di assoluzione, ma Mori e Obinu saranno comunque assolti in via definitiva l’8 giugno del 2017 dalla Suprema Corte che respingerà il ricorso presentato dalla procura generale di Palermo confermando l’assoluzione di primo grado “perché il fatto non costituisce reato”.
Nel frattempo, la latitanza di Provenzano continuava e solo nel 2000 i carabinieri si rimisero sulle sue tracce seguendo il tragitto dei pizzini con i quali Provenzano comunicava con la sua famiglia e il resto del clan.
In un primo momento nel 2001 fecero irruzione in un casolare convinti di trovare Provenzano, ma in realtà si sbagliarono e catturarono un altro latitante.
Soltanto nel 2006, dopo un’attenta indagine gli inquirenti riuscirono a identificare il luogo in cui il Provenzano si nascondeva.
L’11 aprile del 2006, dopo giorni di piena sorveglianza del casolare in cui vi era il latitante, le forze dell’ordine irruppero e arrestarono Provenzano.
Provenzano reagì senza opporre resistenza; confermò la propria identità e si complimentò stringendo la mano agli uomini della scorta per il lavoro svolto.
Venne poi condotto presso il carcere di Terni, dove restò fino a quando non fu trasferito presso il carcere di Novara. Il trasferimento fu predisposto a causa di problematiche inerenti alcuni malumori degli agenti di Polizia Penitenziaria. Dal carcere di Novara, tentò più volte di comunicare con l’esterno e per queste ragioni il ministero della giustizia decise di aggravare la durezza della condizione detentiva applicandogli oltre il regime del 41 bis anche il regime di sorveglianza speciale dell’art. 14 bis dell’ordinamento penitenziario.
Nel 2012 gli venne diagnosticato un cancro alla vescica, motivo per il quale venne richiesta e ottenuta, in un primo momento, la revoca del regime di cui al 41bis, che tuttavia fu riconfermato nuovamente dalla Cassazione nel 2015. Non vennero accolte altre richieste come : detenzione presso il reparto dei detenuti ordinari o concessione del regime di detenzione domiciliare.
Il 13 luglio del 2016 morirà ad 83 anni presso l’ospedale San Paolo di Milano.
Il 26 ottobre 2018 la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Repubblica Italiana per aver rinnovato il 41 bis a Bernardo Provenzano in punto di morte, violando, secondo i giudici, il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti.