Piattaforma Tizieau

Un sondaggio semiserio sull’esame da avvocato

È trascorso circa un mese dalle prove scritte dell’esame di avvocato, sostenute da ventimila candidati in Italia. Dopo il nostro primo articolo sull’argomento, in cui ho descritto la mia esperienza personale, abbiamo dedicato queste settimane a raccogliere testimonianze, storie e consigli di molti altri aspiranti che si sono sottoposti alla prova proprio lo scorso dicembre.

Abbiamo scelto un approccio fluido, parlando con i candidati e ascoltando le tante “versioni della storia”, per riportare le diverse prospettive ed esperienze in un mosaico di voci e di racconti a beneficio dei futuri candidati. E perché no, a beneficio di chiunque voglia, per un attimo, affacciarsi sul difficile mondo delle pubbliche selezioni. Siamo nell’epoca delle statistiche, dei quiz, dei sondaggi compilabili con qualche click. Noi abbiamo scartato l’idea di un questionario a crocette uguale per tutti, abbiamo voluto creare una “piattaforma” di opinioni, chiamata simpaticamente Piattaforma Tizieau (leggasi Tiziò), anche per capire esattamente cosa non va (e cosa invece va) nell’attuale morfologia dell’esame.

Lo abbiamo fatto anche se sappiamo che le statistiche, le cifre, i grafici colorati, soprattutto quelli a torta, attirano i lettori. Perché fondamentalmente a nessuno importa della storia del singolo Tizio (appunto) o Caio. Ci importa sapere quale percentuale fa cosa e quando, perché ci piace sapere di non essere soli. Le statistiche ci fanno sentire in compagnia. Noi qui abbiamo deciso di sfondare questo muro di trucioli delle statistiche e di andare a vedere chi ci sta dietro, a quelle cifre, a quei numeri, a quei “percento”. Abbiamo deciso di farvi ascoltare qualche storia.

Alla Corte d’Appello di Messina, l’esame si tiene in una scuola, l’ambiente è disteso, si lavora serenamente. Abbiamo parlato con Marco, che ha scelto per la terza prova la traccia di amministrativo, quest’anno sugli appalti, di solito bistrattata dai candidati. Il consiglio che ci sentiamo di darvi è di scegliere sempre la prova più vicina alla vostra pratica forense e alla vostra esperienza concreta, anche se vi sembra difficile. Meglio impegnarsi in qualcosa che conoscete bene, piuttosto che lanciarsi in una materia sconosciuta, con il rischio di cadere nei molti tranelli nascosti nelle pieghe dei complessi casi proposti all’esame. Tra i tanti ragazzi che abbiamo intervistato, Marco ci è sembrato il più lucido e organizzato. Ha affrontato l’esame con il piglio giusto, con la giusta dose di razionalità. Ce lo dimostra il fatto che, alla fine, la definisce “una bella esperienza”.

A Potenza, dove l’esame si tiene in una calda e confortevole hall di un hotel, abbiamo incontrato Gianpiero, un ragazzo che, nel diritto, ci crede. Non è per niente scontato: l’inflazione di studenti di giurisprudenza ha portato sui banchi dell’esame di stato una variegata fauna d’importazione. Gianpiero studia con passione, lavora con passione. Ha un grande sogno, forse più di uno, e tutte le carte in regola per realizzarli. È un perfezionista e, ai nostri microfoni, anzi, alle nostre tastiere, ha lamentato che avrebbe voluto concentrarsi di più, organizzarsi meglio, ma che è soddisfatto del proprio lavoro. Nei concorsi mantenere una concentrazione perfetta purtroppo è impossibile. L’esperienza insegna che bisogna buttarsi, senza troppi pensieri.

A Catanzaro, per noi c’è Ilaria. Ad Ilaria, che per lavoro scrive anche pareri, abbiamo chiesto se la sua esperienza professionale la abbia aiutata nel risolvere le prime due prove, temutissime dai candidati: ci ha risposto di sì, anche se, nel contesto dell’esame, il modo di inquadrare i problemi cambia rispetto al “fuori”. Una cosa è esaminare una questione nella realtà dei fatti, un’altra nel laboratorio astrale del compito di un esame. Ilaria si è detta soddisfatta dell’esperienza, per quanto un po’ tumultuosa.

Sempre a Catanzaro, abbiamo anche Lorenzo che ci lascia con una ironica massima “l’esame di avvocato è come una monetina che lanci in aria, dopo sei mesi casca a terra e scopri se sei testa o croce”. Questa bella suggestione è l’occasione per una riflessione importante: non è una prova, scritta od orale, a dirci chi siamo, cosa siamo, come siamo. Quando si affronta un concorso, bisogna essere consapevoli che il risultato non definirà la nostra essenza di persone. A volte, quando un concorso va male, semplicemente abbiamo avuto sfortuna. Succede. Altre volte, capita di aver sbagliato strada e di doversi affrettare a imboccare quella giusta. Non è mai troppo tardi. Ecco, questa è un’altra massima che segnerei: non è mai troppo tardi per prendere la strada giusta.

A tutti quanti i nostri intervistati abbiamo chiesto come si siano sentiti il “quarto giorno”, dopo la fine delle prove. Le risposte variano da “stanco”, con la variante “esausto” a “felice” oppure “demoralizzato”, disponibile anche alla potenza “disperato”. Anche “come se avessi preso una bella sbronza”, beata lei. Infine, qualcuno, semplicemente si è sentito “vuoto”. Perché? “Perché studi per mesi e non sai come andrà a finire”.

Ecco, vi abbiamo riportato giusto qualche esempio delle molte storie che in queste settimane abbiamo ascoltato, per accendere un riflettore su un problema non dell’esame, di come i media di solito trattano quest’esame. Oltre le statistiche, oltre i numeri, ci sono le persone. Ogni ragazzo promosso o bocciato ha una sua vita, una carriera, genitori che hanno pagato l’università o magari un lavoro per pagarsela da soli. Hanno mesi di pratica alle spalle, a volte pagati non dignitosamente come si dovrebbe.

Questo esame ha molti aspetti critici e probabilmente andrebbe riformato, ma solo all’esito di riflessioni profonde e di studi accurati. Noi possiamo solo ricordarvi che quelle ventimila persone sono i nostri fratelli, figli, zii, colleghi, amici e compagni e che meritano un esame equilibrato, ragionevole, giusto ed equo. Continueremo anche a raccontarvi le loro storie, se vorrete.

Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia di lunedì 20/01/2020