Perché parliamo nuovamente de Il Cardellino di Donna Tartt

Il Cardellino, premio Pulitzer per la narrativa nel 2014, ben 896 pagine, è una di quelle storie epiche, impegnate e impegnative, che segnano la vita di chi le ha scritte, lette ed amate. Il romanzo, dopo qualche anno, è tornato a far parlare di sé in quanto sta per sbarcare al cinema la sua tanto attesa trasposizione cinematografica. E quale miglior modo di prepararsi al film se non leggendo o rileggendo il libro?

L’autrice è Donna Tartt, una delle voci più vivide del panorama letterario mondiale, ormai da decenni, la quale ha impiegato quasi dieci anni per terminare il romanzo e, a giudicare dal successo di pubblico e critica, il tempo nello scriverlo e rifinirlo ha portato i suoi frutti. Il romanzo è evidentemente molto lungo, ma questo è uno scoglio solo apparente perché, anche se quello della Tartt non è uno stile semplice e ordinario, fatto di frasi brevi, la lettura risulta comunque fluida, veloce e accattivante, grazie anche al lavoro di traduzione.

Theodore Decker, narratore protagonista, racconta a ritroso la sua storia, partendo dal giorno in cui la sua vita fu segnata per sempre.
Un 10 aprile qualunque assieme alla madre, appassionata d’arte, Theo visita il Metropolitan Museum di New York. Il museo, in quel momento, ospita una mostra sui pittori nordici dell’età dell’oro. Tra i dipinti ce n’è uno che la madre ama particolarmente: il Cardellino di Carel Fabritius. Mentre sta visitando la mostra, però, un attentato terroristico ai danni del museo sconvolge la sua vita di appena tredicenne: sua madre perde la vita, mentre lui, per una pura casualità, si salva. Al momento dell’esplosione il protagonista si trovava nella sala del Cardellino, dopo essersi risvegliato si imbatte in un uomo morente, il quale gli chiede di prendere il quadro dalla parete, per proteggerlo, poi gli consegna il suo anello d’oro, raccomandandogli di portarlo da “Hobart e Bleckwell”.

Da questo momento in poi la sua vita cambia per sempre: si ritrova solo al mondo, preda dell’incertezza e privo dell’unica persona che lo abbia mai amato veramente. Il padre, alcolizzato, aveva lasciato la famiglia qualche mese prima, quindi Theo viene affidato ai Barbour, un’aristocratica famiglia newyorkese. Resta con loro fino a quando non si rifà vivo il padre, che lo porta a vivere con sé a Las Vegas, dove si era costruito da tempo una seconda vita con un’altra donna. Qui Theo incontra uno dei personaggi più interessanti, forse il più enigmatico del romanzo, Boris, un altro ragazzo perduto, con il quale Theo condivide tutto. I due vivono ai margini delle famigerate luci sfavillanti della città, in una sorta di non-luogo, in cui il tempo sembra dilatarsi e restringersi: fanno a botte, si ubriacano, provano qualsiasi droga, rubano nei supermercati, si confidano e si sostengono l’un l’altro cercando di sopravvivere; tra Boris e Theo si crea un rapporto strettissimo e indissolubile, anche se ambiguo e complesso, sospeso tra l’amicizia e l’amore.

La morte del padre, sommerso dai debiti, comunque assente e disinteressato alla vita del figlio, porta Theo a lasciare la città per ritornare a New York. Allora, cerca rifugio da Hobie, un vecchio restauratore di mobili d’antiquariato. È stato il Cardellino a portarlo fin lì, o meglio l’uomo che aveva pregato Theo di prendere con sé il quadro e l’ anello d’oro, durante i suoi ultimi deliranti attimi di vita dopo l’esplosione nel museo. Hobie, diminutivo di Hobart, diventa tutore e padre putativo di Theo; grazie ad Hobie, Theo pian piano si ricostruisce una vita, si appassiona al lavoro di restauratore e diventa un antiquario. Da qui in poi il protagonista passa a raccontare la sua vita di adulto – con tutte le complicazioni che essa comporta – condotta in apparente ordinarietà e tranquillità fino al ritorno di Boris. Come in seguito al loro primo incontro, Boris arriva e mette sotto sopra la vita e l’unica certezza di Theo, fino al rocambolesco finale.

Il Cardellino, quadro, è presente in ogni pagina del romanzo, quasi ossessivamente, anche se non viene menzionato apertamente. Il quadro è legato, inevitabilmente, a doppio filo con la morte della madre: così come il ricordo della madre, sotto forma di incolmabile assenza, il quadro, con la sua ingombrante, ossimorica presenza intesse ogni pagina del romanzo. Il quadro, che tiene Theo così strettamente legato alla vita, che lo fa sentire “meno ordinario”, gli dà un senso, seppur segreto, e lo trasforma agli occhi di sé stesso e del mondo. Ma la tela non è l’unica ossessione di Theo.

Prima dell’esplosione, nel museo, Theo e sua madre incrociano Welty, l’anziano signore che darà a Theo il suo anello, e una bambina dai capelli rossi dalla quale Theo rimane ipnotizzato. La bambina è Pippa, nipote di Welty. Anche lei è riuscita a salvarsi miracolosamente dall’esplosione. Theo la incontra più volte nel corso degli anni, si innamora di lei, dal momento che ne era rimasto folgorato dal loro primo, fugace, incontro. Ogni volta non manca di sottolineare quanto la ami, ma l’amore per Pippa, o meglio l’ossessione per lei, non è altro che il suo modo di rincorrere un passato perduto. Una vita che avrebbe potuto vivere se il corso degli eventi fosse andato diversamente: se sua madre e Welty non fossero morti, se non avesse mai rubato il quadro, se l’attentato non ci fosse mai stato e
se lui e Pippa non fossero stati miracolati sopravvissuti. Pippa è il simbolo della vita che poteva essere e che non è, rappresenta l’esistenza alternativa, ed è per questo che Theo ne è ossessionato e la rincorre, continuamente, anche se sa che non potrà afferrarla, né averla mai.

Il Cardellino, romanzo, è un libro bellissimo e straziante, comincia come una fiaba – l’eroe protagonista deve subito affrontare una prova ardua – quindi si trasforma in un bildungsroman, un romanzo di formazione dalle tinte dickensiane, e termina come un thriller.

Il Cardellino è la storia della vita di Theo, della sua graduale discesa agli inferi, dei suoi tentativi di rimanere a galla nel grande mare inquinato dell’esistenza, di un viaggio attraverso le dipendenze; ma è anche una riflessione sulla vita e sull’accettarla così come è, ovvero inesplicabile. E’ un libro sul caso che guida ogni gesto, che governa il mondo; sull’impossibilità e impotenza umana nel cambiare il corso delle cose; è un libro sull’amore e sulla bellezza, soprattutto, la bellezza che può salvare e unire se porta con sé qualcosa di più profondo.

L’ultima sezione del libro è un lungo stream of consciousness che traghetta Theo e il lettore verso l’impossibilità di trovare un senso nel disordine del mondo, sul potere salvifico della bellezza e sul valore dell’arte. È un finale-non finale, dolceamaro, che il protagonista ha imparato ad accettare.

Donna Tartt ci ha promesso cinque romanzi – ha sempre dichiarato che ne avrebbe scritti solo cinque – e ora ci ha lasciati con il suo terzo lavoro, il Cardellino (gli altri due sono Dio di Illusioni, 1992 e Piccolo amico, 2003). Chissà cosa ci riserverà con il prossimo?
Dal 10 ottobre, in Italia, debutterà al cinema la trasposizione cinematografica del romanzo. Le aspettative sono altissime per chi ha amato così tanto il romanzo, ma anche per il cast e la produzione stellari. Non ci resta che andare a vederlo.