Il 23 Maggio di ogni anno celebriamo la “Giornata della legalità” e, com’è noto a tutti, la data non è stata apposta casualmente; nasce come monito della nostra coscienza nazionale per una sorta di funerale di Stato che si ripete ogni anno, al fine di ricordare i terribili eventi che scossero il nostro paese all’inizio degli anni ’90, quando la lotta alla mafia aveva raggiunto il suo momento culmine.
Quelle stragi sono ripercorse attraverso le drammatiche immagini di Capaci che ogni 23 maggio vengono proiettate sui nostri schermi televisivi e tra i video celebrativi diffusi sulle piattaforme digitali. Tra i ferrami delle carrozzerie frantumate e l’ammasso di calcestruzzo e acciaio che confonde nello sgomento generale l’immagine di una sconfitta dello stato, si annida il simbolo di uno scontro più profondo: quello che si consuma tra la cultura della legalità e quella dell’illegalità.
Troppo semplicistico spiegare la lotta contro l’illegalità soltanto in termini di sfida al malaffare o alla malavita. Il rischio che si corre è, da un lato, di non evidenziare le ragioni che hanno reso possibile la nascita e lo sviluppo del fenomeno mafioso nel nostro Paese, trovando un humus fin troppo favorevole; dall’altro, invece, si corre il pericolo di cedere ad un ancora più pernicioso meccanismo di deresponsabilizzazione psicologica che ci porta sempre a dividere in due il mondo: buoni e cattivi, onesti e disonesti, azioni umane e disumane.
Peraltro quest’ultima, secondo il parere di chi scrive, è un’espressione priva di senso, dal momento che tutte le azioni sono commesse da uomini contro e verso altri uomini, in primis quelle disumane: la “disumanità” è anch’essa parte della natura umana. In altre parole, appiattire la lotta tra legalità e illegalità sulla sola lotta al fenomeno mafioso fa sì che basti non essere mafiosi per sentirsi a posto con la legge, e quindi per essere convinti di agire in una sfera di legalità; ciò, peraltro, va a vantaggio del fenomeno mafioso che continuerà così a trovare spazio e modo di crescere e alimentarsi.
A propria volta, comprendere ciò rende facile acquisire consapevolezza del fatto che alla base della cultura della legalità c’è in gioco, letteralmente, una questione di vita o di morte. Questo ci impone di cominciare a sviscerare il problema partendo proprio dalla base, costringendoci ad un notevole sforzo di sintesi, nella speranza che lo stesso, però, non sia compiuto in vano.
La domanda è semplice: perché obbediamo alla legge? Su cosa si fonda la nostra scelta intorno al seguire o meno una determinata norma? Qual è quel quid che ci fa avvertire le norme come vincolanti? La legge ci rappresenta? Cosa dovrebbe essere legge?
Le domande semplici, si sa, sono quelle che reclamano più di tutte risposte estremamente complesse.
Portando ai minimi termini la questione, una delle risposte più diffuse, non soltanto da un punto di vista teorico ma anche all’interno della stessa opinione popolare, è che l’obbedienza si debba a ragioni di calcolo prudenziale o utilitaristico. In altre parole, ciò che determina l’obbedienza alla legge è la minaccia reale e concreta di ricevere una sanzione nell’ipotesi in cui io non mi conformi alla norma. Questo modello esplicativo dell’obbedienza alla legge, che spesso e volentieri assume a propria volta una concezione del diritto in termini di comando (Austin; Bentham), spiega l’obbedienza alla legge secondo il paradigma del bandito: la legge sarebbe la pistola puntata alla tempia del cassiere, il quale adempirebbe al comando per timore di essere ucciso.
L’obbedienza si trasforma in costrizione, il diritto in minaccia. Naturalmente, sono diverse le obiezioni che si muovono a questa ricostruzione. Possiamo semplicemente evidenziare come essa, da un lato, non colga l’essenza del normale svolgersi dei rapporti sociali, riducendoli tutti ad un insieme di relazioni interpersonali; dall’altro, non rende conto del fatto che l’obbedienza alla legge è sempre un fatto volontario che riserva comunque a chi è chiamato all’obbedienza una porzione di autonomia e, nei casi più estremi, di vera e propria costrizione (almeno in ordine al “come” obbedire). La legge non si subisce: «si obbedisce, in ultima analisi, perché si vuole obbedire» (La Torre).
Ciò non significa che nel momento in cui ci si ponga riflessivamente il problema di “cosa io debba fare?” non si inseriscano all’interno di quel ragionamento pratico anche considerazioni di carattere prudenziale; ciò che si contesta è che esse siano condizioni sufficienti e determinanti, dunque ragioni escludenti, dell’azione.
Un secondo ordine di idee sostiene che l’obbedienza al diritto si debba unicamente a ragioni di carattere morale posto che tutti gli ordinamenti giuridici «riproducono la sostanza di certe fondamentali esigenze morali» (Hart). Non uccido non perché c’è una norma giuridica che me lo vieta – l’art. 575 del codice penale – ma perché sostanzialmente all’esito di un ragionamento interamente morale io considero ingiusto farlo. Come nel caso precedente, anche quello morale è certamente un profilo che si inserisce all’interno del ragionamento pratico intorno all’obbedienza della legge. Tuttavia, anche questo secondo filone di pensiero può essere fuorviante se isolatamente considerato, perché rischia di identificare due fenomeni, diritto e morale, che sebbene stiano in un reciproco rapporto di costante dialogo, concettuale e funzionale, non si identificano completamente l’uno con l’altro.
Ciò che manchiamo di comprendere è sostanzialmente la natura del diritto e delle sue regole come “cultura”. Tutto ciò che facciamo, che “pratichiamo” è retto da regole: linguaggio, musica, arte, morale, religione, tecnologia e via dicendo hanno un contenuto essenzialmente normativo. Questo perché la normatività è carattere essenziale dell’uomo come “animale simbolico” (E. Cassirer) che costruisce regole d’azione sulla base di una visione del mondo “buona”, “giusta” e quanto meno “condivisa”. Le norme concretamente costituiscono, creano ambiti o possibilità di azione che altrimenti non sarebbero possibili: pensiamo, ad esempio, al mio desiderio di voler aprire un ristorante; per farlo dovrò portare a termine una serie di adempimenti come chiedere una licenza, avere una certificazione e via dicendo, che se non portassi a termine mi impedirebbero di fare proprio ciò che io intendo fare.
Tuttavia, il diritto non basa le sue regole solo sulla socialità, ma anche sul loro Witz (Wittgenstein), ossia il loro senso, l’idea, il concetto, l’immagine attraverso cui possiamo controllare l’adeguatezza, l’appropriatezza, in altri termini la “legittimità” di certe regole. Non c’è dubbio che quel senso risieda in quei valori di “giustizia”, “eguaglianza”, “libertà”, “solidarietà” che proprio il diritto e le leggi più in generale vogliono realizzare e che, non a caso, sono custoditi all’interno delle Costituzioni: quei documenti che costituiscono il paradigma imprescindibile a cui tutta l’interpretazione delle regole di un ordinamento deve tendere. C’è un elemento consensuale di socialità e, dunque, di pretesa di legittimità, alla base del rispetto delle regole; un elemento culturale inoppugnabile che segue il modo in cui noi costruiamo le regole stesse e l’esigenza del loro rispetto.
Ma allora perché in Italia questa esigenza, questo rispetto della legalità che noi stessi abbiamo concorso a costruire, costituisce una necessità più da soddisfare che già compiutamente o prevalentemente soddisfatta quando si guarda la generale tendenza all’inosservanza della legge?
La risposta, a questo punto, è di carattere perlopiù antropologico. Un punto di vista interessante e a tratti seducente è quello di Luigi Barzini. Il giornalista, in un saggio pubblicato nel 1965, ricostruiva la tipica tendenza italiana ad agire in barba alla regole a partire proprio dalla nostra storia di popolo dominato per secoli da regnanti stranieri. Gli italiani hanno avuto a che fare con francesi, spagnoli, austriaci, dominatori che hanno di fatto sfruttato e depredato il territorio italiano piegando quel popolo (popoli n.d.r) alla loro volontà.
Da qui deriva la tendenza, nell’impossibilità di innescare una ribellione contro il potere – che non a caso quando è arrivata e giunta “dall’alto” – a farsi furbi. Secondo Barzini, l’atteggiamento tipicamente italiano è il seguente: “se il dominatore mi impone questa regola è perché vuole fregarmi, sfruttarmi o approfittare della mia debolezza: quindi, mi ci impegno e lo frego io, per proteggere almeno me, la mia famiglia e i miei guadagni”. Per dirla bonariamente: fatta la legge, mi conviene trovare l’inganno.
Ma è proprio da qui che nasce il fenomeno culturale che ci porta a vedere lo Stato e le sue regole come qualcosa di distinto e distante da noi, qualcosa contro cui andare, per giunta “da raggirare”. Il Parlamento e il Governo non sono un luogo di incontro, ma al contrario di scontro dove tutto è governato dalla legge del più furbo. Ciascuno agisce fregando lo Stato, l’altro, e così facendo frega solo sé stesso. E l’esempio dell’evasione fiscale, da questo punto di vista, è il più icastico e lampante di tutti. Le leggi non servono per rappresentare o proteggere i molti, bensì per arricchire qualcuno in particolare. E la Costituzione è solo l’immagine sfumata di un disegno superiore che vorrebbe operare per il bene comune mentre ciascuno di noi agisce solo per il bene proprio.
A fronte di tutto ciò mi viene da pensare che forse sarebbe il caso di riformulare quell’espressione: “La rivoluzione si fa nel seggio elettorale”; la rivoluzione, quella vera, si fa tra i banchi di scuola e nelle università. Quei luoghi-santuario dove la cultura collettiva può e deve essere edificata, nella speranza che se non noi, ma altri un giorno potranno portarla a termine con successo.
Con questa speranza, a voi audaci (o stolti?) che siete giunti alla fine di questo articolo, faccio il mio augurio.
Buona Giornata della Legalità.