Il 24 novembre, a causa di una frana, un viadotto sulla Torino-Savona ha ceduto di circa dieci metri. Non ci sono feriti né dispersi, gli automobilisti sono riusciti a fermarsi in tempo e ad avvertire gli altri che arrivavano.”. Se ne parlerà per solo per qualche giorno, sebbene quest’ultimo crollo rappresenti una porzione di un discorso notevolmente più articolato: qualcuno ricorderà che nel 2015 sull’A19 cedeva un pilone del viadotto Himera e molti staranno apprendendo in queste ore come altri 8 ponti sarebbero a rischio crollo massimo e 20 semplicemente a rischio. Senza
contare tutte le gallerie non a norma o la situazione dell’A14, sulla quale si viaggia a una corsia su più di dieci viadotti. Si potrebbe continuare, ma sembra basti il quadro appena rappresentato per entrare nel vivo del ragionamento: siamo abituati a poter crollare, noi e la nostra terra. Siamo così abituati a vivere in una situazione di precarietà da non riuscire più ad indignarci, da non sentire tutto ciò come nostro. Ci siamo ridotti a consolarci del bilancio dell’ultimo crollo, migliore in termini di vite umane rispetto a quello del Ponte Morandi. Meno morti e meno danni ci hanno
quasi indotto a pensare “meno male”, il che non dovrebbe stupirci. Siamo ormai assuefatti alla scelta del male minore al punto da avere acquisito un’inquietante capacità di farci scivolare addosso eventi drammatici o addirittura a tirare un sospiro di sollievo se le conseguenze sono meno tragiche dei disastri precedenti. Ciò che sta accadendo alle grandi opere pubbliche nel nostro Paese dovrebbe indurci a riflettere: se le opere infrastrutturali che dovrebbero rendere più agevole e progredita la nostra vita si traducono in interventi che non solo non comprendiamo sul
piano estetico-architettonico, ma che iniziamo a identificare come un pericolo per la nostra incolumità, qualcosa è andato storto. Provo a riformulare, da altro angolo visuale: cosa pensare se le opere destinate alla fruibilità pubblica non sono condivise né apprezzate dalla comunità stessa
che da tali opere dovrebbe trarre giovamento? E cosa pensare se una di queste opere diventa causa di morte? Certo, queste domande sono evidentemente provocatorie e non trovano risposte definitive. Purtuttavia, il compito di chi scrive è proprio quello di rendere palpabile al lettore quella discrasia tra piano concreto e astratto che generalmente (purtroppo) caratterizza il rapporto amministratori-consociati, ed in tal modo provare ad accorciare la distanza – sempre troppo ampia tra realtà e buone intenzioni.
Il dato di realtà, nel caso di specie, è uno solo: questo evento, come la tragedia del Morandi e tutti gli altri crolli o cedimenti dagli esiti fortunatamente meno drammatici, è assolutamente inaccettabile. Come anticipato, però, non si scenderà nel merito delle scelte politiche e non si considererà l’argomento come un’occasione per perdersi in slogan elettorali. Piuttosto, la riflessione che si suggerisce attiene essenzialmente al modello decisionale preordinato alle scelte localizzative, progettuali ed esecutive di un’opera pubblica. Ciò che colpisce, infatti, è che nel nostro Paese il cittadino avverte che le istituzioni non sono interessate a coinvolgere il pubblico nei processi decisionali relativi alle opere pubbliche, nonostante sia ormai universalmente riconosciuto che l’unico modo per creare una rete infrastrutturale utile, snella e condivisa ci sia bisogno di un coinvolgimento bottom up.
Ne sono esempi Barcellona – che ha avviato nei primi anni Novanta un dispendioso lavoro di ripensamento dei meccanismi di decision- making – o Copenaghen, che vive di una continua interazione tra istituzioni e cittadini
nell’organizzazione fisica degli spazi urbani ed extraurbani.
Ma veniamo a noi: solo l’anno scorso, infatti, abbiamo mutuato finalmente dalla Francia il modello di dèbat public sulle grandi opere (DPCM n.76/2018), che dovrebbe consentire la piena attuazione di quanto previsto nel Codice degli appalti e la conseguente transizione verso un sistema che alcuni definiscono “di democrazia deliberativa”, con ciò intendendo un processo decisionale che miri a soluzioni condivise e che non si basi esclusivamente sulla ‘legalità formale’ delle procedure, bensì anche su una legittimazione delle stesse derivante da un processo pubblico di informazione e giudizio collettivo. Il dibattito pubblico prevede la predisposizione di un dossier da parte dell’Amministrazione da mettere a
disposizione del pubblico contenente tutte le schede progettuali, nonché la documentazione relativa alla fattibilità e alle alternative progettuali delle opere; inoltre, i privati potranno svolgere le proprie osservazioni nei quattro mesi successivi alla presentazione del dossier. Quanto poi
all’ambito applicativo, il Decreto si applica solo a determinate opere, tra cui proprio quelle che ci hanno fatto tremare negli ultimi anni: autostrade, tronchi ferroviari, interporti e in tutti gli altri casi resta facoltà dell’Amministrazione indire il dibattito pubblico.
Si badi: non sarà sicuramente grazie al débat che si sbloccheranno o verranno ri-progettate in ottica partecipativa le circa 300 opere pubbliche ad oggi incompiute, ma non può dubitarsi che la condivisione rappresenti un esercizio di ascolto cruciale nella tensione verso un modello di
comunità innovativo, inclusivo e sicuro. Peraltro, il dibattito pubblico potrebbe rappresentare anche uno strumento deflattivo del contenzioso, che è un costo sociale, o uno strumento utile all’implementazione di politiche di governo del territorio che abbiano cura, da un lato, dell’aspetto
legato alla tutela ambientale e alla tenuta idrogeologica e, dall’altro, di quello relativo alla maggiore funzionalità e sicurezza delle grandi opere infrastrutturali. Potrebbe generare, infine, un effetto mediato cui dovremmo aspirare tutti: una condivisione di intenti e responsabilità che
condurrebbe al definitivo superamento dell’italianissima filosofia del ‘piove, Governo ladro!’.
Già pubblicato su Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei Ventenni 9/12/2019