Nella stanza di Bo Burnham

“Inside” è il comedy special del momento ed è comico perché non fa ridere

Bo Burnham, classe 1990, è il comico statunitense di cui stanno parlando tutti. Con una carriera da vero millennial, Bo (Robert all’anagrafe) si è imposto gradualmente nel mondo dell’intrattenimento grazie al suo stile politicamente scorretto e al mescolare diversi espedienti teatrali: i suoi show sono un’alternanza perfetta di classica stand-up comedy, dialogo col pubblico, canzoni ironiche ed effetti speciali. La sua passione per l’arte visiva lo ha portato alla notorietà tramite Youtube e successivamente negli speciali realizzati nei teatri.

Recentemente si è dedicato alla sua carriera cinematografica, dirigendo e collaborando alla sceneggiatura di “Eight Grade” – criticamente acclamato – e recitando in “Promising Young Woman”, premiato agli Oscar 2021. Il suo speciale “Inside”, uscito su Netflix il 30 maggio, ci mostra l’uomo che è diventato, in uno show che ci costringe a rivalutare il concetto di comicità.

Nell’ultimo periodo si è discusso parecchio su cosa “faccia ridere”, soprattutto su cosa si “possa” ridere, specie guardando alla sensibilità delle nuove generazioni e all’imprevedibile successo di show comici più spontanei come LoL- Chi ride è fuori, su Prime Video. Bo Burnham nel tempo ha definito la comicità delle nuove generazioni, costituita da mescolamenti di registri alti e bassi, musica e moltissimo nonsense. Girato in un’unica stanza – quella che lo ha visto coltivare la sua arte in quest’anno di pandemia – lo speciale risulta essere un prodotto cinematografico ambizioso, confuso, divertente, deprimente e, in sostanza, straordinario.

Interessante è stato assistere alla reazione del web – il suo pubblico – all’uscita dello special: le discussioni che sono scaturite guardavano con ansia, spesso addirittura preoccupazione per lo stato mentale dell’attore, ma Bo è un attore, è bianco e privilegiato, ha solo assistito al 2020 e ce lo ha mostrato interpretando il personaggio di un film sceneggiato e prodotto da se stesso, come una Lory Del Santo per la gen z.

Di fatto, non dice nulla che non sappiamo già e che non abbiamo già provato, la preoccupazione che abbiamo sentito per lui è come dovremmo sentirci verso noi stessi. Bo è un privilegiato e lo sa bene, non si tira indietro in questa fase di indagine e caccia al problematico, ma per qualche motivo visto che si mette in discussione e chiede scusa, internet ritiene di dargli un lasciapassare – e lui non la sta prendendo bene.

In Problematic se lo chiede proprio “Isn’t anybody gonna hold me accountable?“, perché come nuove generazioni lo stiamo facendo bene, perché serve farlo bene, non ci accontentiamo più di attivismo performativo e scuse blande, per cui non dovremmo tirarci indietro solo perché Bo Burnham “ci fa ridere”.

Il film, in sostanza, ci mostra un Bo che parla al suo pubblico dipingendo la sua generazione e se stesso, spogliando di ipocrisie il nostro rapporto col web e le battaglie sociali che ci hanno coinvolto, mai sminuendo ma proiettando un universo interiore che ci accomuna, mostrandoci che l’arte prende sempre in prestito dalla vita, che possiamo assolutamente rappresentare come: un mescolamento di registri alti e bassi, musica e moltissimo nonsense.

Articolo già pubblicato su Il Quotidiano del Sud – l’Altravoce dei ventenni il 7 giugno 2021