“Mare fuori” è una serie italiana che, ispirata al carcere di Nisida, racconta la storia di giovani detenuti all’interno dell’Istituto penitenziario minorile di Napoli. Prodotta da Rai Fiction e Picomedia, è stata distribuita in televisione, prima sulla Rai e successivamente su Netflix, a partire dal 2020.
Il successo da cui è stata raggiunta, è testimoniato dal debutto della terza stagione, attualmente in corso di trasmissione su Rai 2 con un picco di circa 105 milioni di visualizzazioni, e dalle recenti dichiarazioni di chi vi lavora che confermano l’arrivo di altre tre stagioni. Luogo principale delle riprese è la base della Marina Militare del Molo San Vincenzo di Napoli, sede suggestiva che evoca immediatamente l’immagine dell’istituto a picco sul mare.
I giovani protagonisti della serie, si raccontano attraverso rapporti di amore, odio, amicizia e fratellanza, che nascono inaspettatamente all’interno dell’istituto, intrecciando le loro storie. Il bene e il male sono confini che muovono le scelte dei ragazzi di oggi e degli uomini di domani. Da una parte il sistema della criminalità organizzata che tocca e coinvolge anche i giovani, rendendoli schiavi di una mentalità che si fa beffa delle regole e della giustizia, e dall’altra, il desiderio di riscatto di chi nasce in contesti difficili, e vuole raggiungere la propria libertà di essere. Tale contrasto è ben rappresentato dai personaggi di Ciro e Carmine (interpretati rispettivamente da Giacomo Giorgio e Massimiliano Caiazzo), che offrono due prospettive opposte, nonostante la provenienza da ambienti familiari assimilabili.
Un punto di riferimento dei ragazzi, è il comandante dell’IPM (interpretato da Carmine Recano), che spesso, nell’esercizio del suo ruolo, finisce per entrare in empatia con i giovani detenuti, ponendosi con l’atteggiamento di un genitore. Invitandoli ad abbattere le barriere dei pregiudizi ed a pensare con la propria testa, senza farsi travolgere dal desiderio di vendetta e dalle logiche del sistema criminale, rappresenta, per ogni adolescente, un esempio da seguire. Ciascuno dei ragazzi che fa ingresso nell’IPM porta con sé un bagaglio di vita differente, dimostrando come, a prescindere dal contesto sociale di provenienza, ogni persona possa sbagliare. La vita, ad un adolescente che si ritrova a scontare una pena detentiva, insegna, come soprattutto nei momenti più difficili, si finisce con il riscoprirsi fragili ed uguali agli altri.
È allora fondamentale garantire ai giovani detenuti un panorama adeguato alla loro rieducazione attraverso la rete del personale che lavora all’interno degli istituti penitenziari minorili e le attività che vi vengono organizzate. Il fine ultimo a cui tendere è quindi l’esigenza di dare loro, nel concreto, una seconda possibilità. L’idea di restituire alla società dei giovani consapevoli degli errori commessi, del male arrecato, dei danni provocati, è il filo conduttore delle puntate. Lo sforzo, a volte estremo, che il personale delle carceri compie in tale direzione, è un dettaglio di non poco conto. Restituisce una riflessione su quanto, nella realtà, le Istituzioni si impegnano a fare, a costruire. Un impegno che tuttavia, in alcuni casi, non trova sbocco nella collaborazione della persona che ha commesso il reato, ed in altri, nella società, in cui sono assenti gli opportuni mezzi per consentire un effettivo reinserimento del singolo.
Le esperienze negative dei personaggi sono macigni che ognuno di loro si porta dentro e, l’attività di riconoscimento e comprensione dei propri sbagli, è un processo lento, che sulla base delle caratteristiche della singola persona, avviene in tempi differenti. Ogni personaggio è spinto ad attenuare o estremizzare determinati tratti caratteriali, sulla base delle situazioni, delle persone, delle circostanze in cui è cresciuto. La debolezza che in ciascuno è ravvisabile, è il frutto di una frustrazione, di ansie, che hanno la loro fonte nella famiglia e nella società. Può ravvisarsi in giovani soli, che sfuggono alla vita dei loro genitori, può intravedersi in giovani apparentemente inseriti nello schema familiare e nella educazione ricevuta. Ognuno di essi, alla fine, scappa da qualcosa che non gli ha permesso di essere sé stesso.
Ed è proprio la speranza di ritrovare, o costruire sé stessi, nel corso di un’esperienza infelice, quale quella della detenzione, che si può trovare il coraggio di andare avanti.
Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni