28.6.17
NY
Helsa è una ragazza dai capelli ricci riccissimi, quei ricci troppo ingarbugliati che neanche le più forti spazzolate riescono a scioglierne i nodi.
E quell’ammasso di capelli, indomabili e di certo non indifferenti, raccontano le emozioni di una ragazza vittima di un sistema che non riesce a comprenderla, che non riesce a vedere oltre il suo pancione da venticinque settimane e non è ancora pronto ad accettare l’arrivo di una nuova vita.
Xavier, poggiato al palo centrale del bus, con aria distratta e le cuffie nelle orecchie, muove il suo bacino al ritmo di una musica che io immagino provenire da qualche posto lontano.
Si agita nel silenzio di quel mercoledì pomeriggio, si scuote e non prova vergogna, non ha paura del giudizio degli altri: in quella parte di New York nessuno è qualcuno e tutti sono nessuno.
John è il figlio di quella della lavanderia sotto casa, sulla 114th e sta seduto nell’angolo vicino ad un pacco che emana un profumo di lavato e di pulito, un altro pacco pronto da consegnare a qualche (rara) signora nera e ricca del quartiere.
Da quando è nato vive immerso fra gli oblò delle gigantesche lavatrici del negozio della madre ed ha sempre avuto paura di una cosa: finire, come la madre, nel profondo baratro delle asciugatrici – emblema di una vita da cui vorrebbe scappare via, il più lontano possibile.
Miranda è una donna anziana: indossa una camicetta rossa da cui fuoriesce, contrariamente alla sua natura di donna nera, un seno poco prosperoso e dei pantaloni neri. Dalla tasca dei pantaloni si intravede una chiave che apre un piccolo appartamento dove non riesce a smettere di insegnare l’arte del pianoforte. Ecco perché ha le dita cosi consunte e le unghie così corte.
E poi, in fondo, siede Ramer.
Ramer ha la barba lunga, troppi pochi soldi e troppi bambini da sfamare. Tiene nella sua mano grande la mano piccina di suo figlio – il primogenito – e la stringe forte a sé.
Si stanno dirigendo al mercato del pesce, perché oggi ha ricevuto una grossa mancia e ha deciso di comprare una porzione di gamberi fritti per le sue quattro bambine e il suo maschietto di casa.
Si deve pure festeggiare ogni tanto.
Dopo la seconda guerra mondiale il quartiere di Harlem, a nord di Manhattan, si è impoverito disperatamente, diventando pericoloso, malfamato e decadente. E povero.
A metà degli anni novanta però, grazie alla incredibile forza di volontà dei suoi abitanti, Harlem ha ripreso a fiorire e a risplendere di una – seppur soffusa – luce propria.
La speranza!
Helsa sorride: non ha tanti soldi con sé, ma dalla sua ha così tanto amore da nutrire un intero esercito di neonati; tuttavia i bambini non si sfamano solo con l’amore.
Ha bisogno di un lavoro, di soldi, di qualcuno che l’accompagni lungo il tortuoso percorso del diventare mamma. Il parto, però, non le crea problemi, non la spaventa.
Sa che anche la sua piccola Lucy avrà dei ricci problematici, ma spera che questi possano avere una forma definita e una morbidezza tale che i dolori della vita possano essere addolciti con una carezza fra i capelli.
Xavier ha un sogno, e lotta per trasformalo in realtà: ballare.
“I got it in my veins, I got it in my blood” è questo il suo mantra.
Non può fermarsi, il movimento del bacino è l’unica via d’uscita in un mondo pieno di illusioni e delusioni. Non ha altro se non il suo bacino e la sua musica, e per ora, se lo fa bastare. E’ un ragazzo di strada, la strada è la sua casa e l’hip hop è la sua mamma.
John ama giocare a basket: è la palla il suo pensiero fisso. A ricreazione non perde un attimo per fare qualche tiro in più degli altri, e in chiesa la domenica ha imparato tutte le preghiere Gospel e canta (seppur sia un’attività prevalentemente femminile e gli amichetti lo prendono sovente in giro); ma la suora gli ha promesso che questo dono del Signore sarà la chiave di volta della sua vita.
Per ora continua a sperare, giocare, cantare, pregare e consegnare i bucati profumati per il quartiere.
Miranda osserva John e spera che il bambino suoni il piano. Lo immagina seduto di fronte a Fortes, il suo piano di ciliegio, l’ultimo regalo del marito ormai defunto che non gli ha mai potuto dare un figlio, e quindi eredità dal valore incommensurabile.
I tasti del pianoforte sono i suoi bambini, li cura e li coccola tutti i giorni, e vorrebbe che tutti li amassero come lei ma mai più di lei. Non cerca allievi, cerca dei seguaci, degli amanti della musica e in tutta Harlem forse solo a John non interessa suonare.
Lui ha la sua palla e il suo canestro, e sa comporre la sua personale e indistinguibile melodia.
Ramer oggi ha il pomeriggio libero, ha preso il solo figlio maschio da scuola e scende di fronte al mercato.
Il profumo di mare gli ricorda i sogni d’infanzia, gli ricorda le sue origini ispaniche, gli ricorda la promessa che il Ramer bambino fece a se stesso: i tuoi figli non avranno mai paura di essere dei neri di Harlem.
Tutto è permesso, tutto è riscuotibile se ottenuto con il sudore della propria fronte e la forza lavoro delle proprie mani.
Io, dal fondo dell’autobus, osservo tutto con attenzione, scruto i particolari, immagino le storie di queste persone e forse fantastico un po’ troppo.
Ero un po’ spaventata all’idea di stare a lungo in quel quartiere, non ne avevo sentito parlare troppo bene, maledette malelingue e maledetti pregiudizi – penso sorridendo.
Mi innamoro dei dettagli, degli occhi smaniosi di ogni Helsa, del ritmo di qualiasi Xavier.
Mi innamoro di quelle guance paffute e dei sogni di tutti i bambini come John.
Mi intenerisco alla vista di Miranda, che mi ricorda ogni donna che lotta contro il dolore e le disavventure della vita, amandola comunque incredibilmente e minacciosamente. Senza demordere.
Sono fiera di un padre come Ramer, e penso ai sacrifici di ogni genitore e alle famiglie che non mollano.
I veri poveri sono quelli a cui manca la ricchezza del cuore e dell’anima, i veri criminali sono quelli che non usano la dignità e il coraggio come arma per sconfiggere i pregiudizi e le difficoltà.
Mi trovavo sul bus perché avevo intenzione di andare a Central Park al Museo di Storia Naturale, ma decido di fare prima una passeggiata.
Scendo dall’M116 e chiudo gli occhi: sento una tromba, mi volto e lo vedo. Di fronte all’Apollo Theater c’è un uomo che con la sua musica trasforma una caotica strada dell’East Harlem, in un caldo pomeriggio di fine giugno, in un ricordo per me indimenticabile.
Quel Jazz mi tocca il cuore e scuote ogni fibra del mio corpo: è l’anima di Harlem che esplode, che racconta sé stesso, attraverso i passanti, attraverso le loro tristi ma meravigliose e magiche vite.
Sorrido.
E decido di custodire quel ricordo stretto stretto in un angolo del mio cuore.