L’ultimo dei visionari

Franco Battiato era il nostro Duca Bianco

Tanti anni fa, ospite di una trasmissione di Radio2 condotta da Neri Marcoré, Franco Battiato confessò di non aver mai acquistato un album di musica pop. Non era una questione di avarizia né di ostentato snobismo: più semplicemente, il maestro siciliano – evidentemente circondato da amici generosi ed esigenti tanto quanto lui – amava viaggiare tra i suoni colti, non solo nel senso letterale dell’aggettivo, ma anche come espressione di ricercatezza e infinita curiosità, che emergerà di prepotenza negli album degli anni Settanta (Fetus, Pollution), dominati dai sintetizzatori e dalla sperimentazione. In realtà, Franco Battiato aveva una conoscenza globale della musica come pochi altri in Italia: dagli esordi beat si può intuire la grande attenzione per i suoni della Swinging London; lo sperimentalismo di Karlheinz Stockhausen lo porterà a frequentare i territori della musica elettronica e strumentale; l’interesse per le culture orientali attraversa come un filo rosso la sua carriera – si pensi a Genesi e Caffè De La Paix – e traspare persino da un episodio dichiaratamente commerciale della sua carriera come Voglio vederti danzare. Sì, l’eclettismo era la cifra di Battiato: non solo musicista, ma anche autore e mentore di tanti artisti, come Alice, Giuni Russo e i Denovo. Tutti arrivati al grande pubblico grazie alle sue intuzioni, molte delle quali condivise con il produttore e paroliere Giusto Pio: prima ancora di vincere il Festival di Sanremo 1981 con Per Elisa, Alice era diventata celebre l’anno prima con l’ipnotica Il vento caldo dell’estate, quasi un bignami delle invenzioni sonore contenute ne La voce del padrone, la raccolta di gran lunga più celebre di Battiato. C’è ancora lui dietro il più grande successo di Giuni Russo, Un’estate al mare, che si distingue dal canone delle canzoni a tema balneare non solo per gli echi sensuali del testo, ma soprattutto per le qualità vocali dell’interprete, che diede letteralmente voce allo stormo di gabbiani che si può ascoltare verso la fine. La familiarità con il pop e la canzone classica – a cui ha dedicato un’intera trilogia di cover, Fleurs – si può rintracciare in almeno due episodi che documentano la sua statura di interprete sensibile e appassionato: la rilettura di Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli, a cui Battiato diede un andamento più misurato e un respiro più classicheggiante, sottolineato dalla presenza degli archi, e la rivisitazione di Impressioni di settembre della PFM, con un arrangiamento meno solenne dell’originale – una pietra miliare del progressive italiano – capace però di esaltare il testo sognante di Mauro Pagani e Mogol. Fino al palco dell’Ariston, dove Battiato si presentò nel 2011 come ospite illustre dell’amico e conterraneo Luca Madonia, in nome della vecchia amicizia nata ai tempi dei Denovo, la band di cui il maestro catanese produsse l’ultimo album, Venuti dalle Madonie a cercar Carbone. La sua voce e la sua figura fuoriescono dalle ombre come L’alieno del titolo per una trentina di secondi. Sufficienti, però, per incantare tutti: «Vivo/nei panni di un alieno che non vola/che non mi assomiglia/Ma io vivo/ai margini di una vita vera/e non mi riconosco».

Il manifesto programmatico di tutta la sua vita, nella quale ha intercettato i suoni di radio misconosciute, visitato mondi lontanissimi, esplorato orizzonti perduti. Battiato era il nostro Duca Bianco: anticonformista senza essere ribelle, trasgressivo senza essere provocatore, visionario senza essere lunare. Ha viaggiato tra le stelle, rubando al mondo un po’ di bellezza. Quella stessa bellezza che ciascuno di noi – compreso chi scrive – ritroverà intatta nelle sue composizioni, un incontro d’amore tra la musica e la poesia così riuscito che sarebbe riduttivo parlare di canzoni. Il talento inimitabile di chi era e sarà sempre senza padrone.