Se si cercano su internet i conflitti attualmente in corso, si scopre che sono 62 gli Stati del mondo coinvolti in guerre, la maggior parte di essi si trova in Africa e in Asia. La guerra in Palestina è una di quelle di cui sappiamo di più. Da quando, l’8 luglio, l’esercito israeliano ha dato il via all’Operazione Margine Protettivo contro i militanti di Hamas, tutti i giorni reporter e inviati di guerra riportano sui media notizie di morte e distruzione dal fronte. Shida, una ragazza milanese di 29 anni che ha studiato in Bocconi, è di religione ebraica e oggi vive a Tel Aviv. Le chiedo se le andrebbe di essere intervistata sull’argomento e lei accetta con entusiasmo. Shida è molto gentile e disponibile, ma, già all’inizio mi riprende perché mi riferisco alla sua terra col nome di Palestina. Mi dice che in realtà la Palestina non esiste, che esistono lo Stato di Israele, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania e io, un po’ a disagio, le dico che mi riferivo alla regione geografica e che ho usato quel nome senza riflettere e tra me e me penso che, accidenti!, è solo un nome e che per me non ha nessuna importanza chiamare quella terra con un nome o con un altro, ma per lei evidentemente sì e capisco che la faccenda è molto più complicata di quanto credessi.
A: Com’è la vita a Tel Aviv? È una città ricca? Moderna? Multietnica? Come mai hai deciso di trasferirti lì da Milano?
S: Tel Aviv è una città molto speciale, che combina caratteristiche del Medio Oriente con un forte orientamento verso la modernità. Non a caso è stata definita la seconda Sylicon Valley, per il grande numero di start up di successo nel settore high tech. E’ una città che combina gli shuk, mercati in stile mediorientale, ai grattacieli che caratterizzano sempre più lo skyline della città. Ad un primo impatto non è esteticamente bella come lo sono le città Europee, ma è una città che si impara ad amare, perché ha spirito e una personalità uniche. E poi c’è il mare: come non poterla amare?! La popolazione è estremamente variegata: ci sono i Telavivim doc, nati e cresciuti qui, gli Israeliani provenienti da altre città e tutta la comunità internazionale che si è trasferita qui da ogni parte del mondo. Inoltre essendo una città molto liberale, nel tempo è diventata un importante polo di attrazione per la comunità gay, tanto che il Gay Pride di Tel Aviv richiama moltissimo turismo (tra cui tantissimi italiani). La società così ricca di differenze culturali e linguistiche è indubbiamente uno dei motivi che mi ha portata a trasferirmi qui: a volte si ha la sensazione di vivere in un Erasmus Mundi 24 ore al giorno 365 giorni all’anno. E’ importante dire che Tel Aviv è immersa in una bolla rispetto al resto di Israele: l’estremo liberalismo, multilinguismo (nelle strade si sente parlare l’inglese tanto quanto ebraico, per non parlare di russo e francese) e la società principalmente giovane e single, la rendono unica rispetto al resto delle realtà del Paese. La vita sociale non ha mai una pausa: puoi uscire una sera qualsiasi della settimana e trovare bar e ristoranti pieni ad ogni ora della giornata. Un altro motivo che mi ha portato in questa città è stata proprio la presenza dei giovani, tanti, pieni di energie positive e voglia di fare. Ero stanca di vivere in una società di vecchi, dove lo spazio per i giovani è solo marginale e dove i giovani non combattono veramente per il loro spazio nel mondo del lavoro. Qui i giovani, anche quelli che si trasferiscono da altre parti del mondo, arrivano armati di voglia di fare, di mettersi in gioco, e la società li mette in condizione di farlo: ci sono tantissime iniziative per i giovani e le start up, workshop, spazi a disposizione per lavorare in gruppo (hubs) e fondi di supporto per progetti particolari. Tuttavia non è solo una questione pratica; la mentalità è determinante: non c’è la paura di fallire, il fallimento di un progetto non viene visto in modo così drammatico, meglio provarci e fallire che non averci mai provato. Questo è quello che ha portato grandi società come Wix, Waze e Moovit ad essere sulla ribalta mondiale. Ndr app basate sulla comunità che si propongono di semplificare il traffico, la navigazione stradale e l’uso del trasporto pubblico.
Un altro aspetto che mi ha portato qui è, senza dubbio, la possibilità di poter vivere in totale libertà la mia identità ebraica: il bello di Tel Aviv è che puoi essere chi vuoi e credere in ciò che vuoi. La possibilità di poter condividere le pratiche legate alla mia cultura senza costrizioni pratiche, come dover prendere giorni di ferie dal lavoro per le feste ebraiche, e poter scegliere se mangiare kosher o meno, scegliendo tra un vasto assortimento di ristoranti, è fantastico. Tutto questo però potendo scegliere di andare a Yaffo (che è una quartiere a sud di Tel Aviv) e mangiare nei tipici ristoranti arabi e sentire la voce del muezin che si diffonde dai minareti delle moschee.
Ultimo, ma non meno importante, motivo del mio trasferimento qui: il tempo è bello quasi tutto l’anno e ogni weekend puoi trovare la città svuotata sulle spiagge che percorrono l’intera lunghezza della città. La gente pratica tantissimo sport, quindi vedi continuamente persone che corrono sul lungo mare, surfisti, e quant’altro.
A: Come è cambiata la tua vita dall’8 luglio? Conduci ancora una vita “normale”? Si vedono molti militari in giro? Che sensazioni avverti per strada? Hai mai pensato di tornare a Milano?
S: Sinceramente ho cercato di continuare la mia vita di tutti i giorni, da un punto di vista pratico. Ovviamente questo non è possibile: dall’inizio della guerra, Hamas ha lanciato migliaia di missili su tutte le città israeliane. E’ importante spiegare che se Israele non avesse investito milioni di dollari nella ricerca e nell’implementazione dell’Iron Dome, lo scudo antimissilistico che blocca la maggior parte dei missili lanciati verso di noi dalla Striscia di Gaza, Israele sarebbe stata già rasa al suolo, intenzione principale di questi atti di terrorismo. Nel momento in cui viene intercettato un missile in arrivo verso una città Israeliana specifica, partono delle sirene in quella zona che avvisano la popolazione di mettersi al riparo. A seconda della distanza dal punto di gittata, il tempo di preavviso per mettersi al sicuro nei ripari antimissilistici o semplicemente nella zona più sicura del condominio (nel mio caso, il corridoio del mio palazzo) varia. A Tel Aviv abbiamo 90 secondi di tempo, al sud, a pochi kilometri da qua, 15 secondi (nulla praticamente!). Quando il missile viene intercettato, l’Iron Dome fa partire un missile di scudo che blocca quello in arrivo, annientandolo in aria. Per questo si sentono delle esplosioni fortissime, che fanno spesso tremare i muri. E’ sempre raccomandato di aspettare 10 minuti prima di tornare nei luoghi aperti, in quanto i detriti potrebbero cadere e ferire i passanti. Condurre una vita regolare con questo tipo di realtà direi che è impossibile sia da un punto di vista pratico, ma soprattutto morale. Mi è capitato due volte di essere in bici in mezzo alla strada nel momento in cui è partita una sirena e c’è stato quel momento di panico in cui mi sono chiesta dove sarebbe stato il posto più sicuro verso il quale correre. Il morale ovviamente è molto basso, la gente tende a restare molto più in casa. Inoltre tanti colleghi e amici sono stati richiamati dall’esercito per poter contenere l’emergenza, quindi c’è il continuo pensiero a loro e la preoccupazione che possano non tornare, come purtroppo è successo a tanti ragazzi dall’inizio di questo conflitto.
Non c’è stato un solo momento però in cui ho pensato di tornare in Italia: quello che sta succedendo qui è un attentato terroristico che perdura da 4 settimane verso l’intera nazione e la risposta al terrorismo non è scappare da casa propria. Sarebbe come chiedere ad un newyorchese se avrebbe voluto lasciare New York dopo l’attentato alla torri gemelle.
A: Mi hai detto che l’informazione in Italia e nel resto del mondo su quanto accade in Palestina è oltremodo viziata. Puoi spiegarmi cosa intendi e qual è secondo te il motivo di queste “interferenze informative”? Cosa pensi di quello che dicono in molti, ovvero che esiste una sproporzione, una disparità di forze tra i mezzi dell’esercito israeliano e i mezzi “rudimentali” dei Palestinesi (i razzi Qassam)?
S: Purtroppo l’informazione in Occidente su ciò che succede qui è terribilmente faziosa. Uno dei motivi principali è che il sangue fa notizia. I palestinesi lo sanno e devo dire che in questo conflitto si sono rivelati degli ottimi strateghi dal punto di vista delle “pubbliche relazioni”: forniscono tonnellate di materiale (sia vero che finto) ai giornalisti. Basti vedere le foto condivise in numerosi articoli con bambini feriti o uccisi, fatti passare per Palestinesi, ma in realtà Siriani. Grazie a questo i fotografi hanno sempre materiale scioccante da prima pagina senza dover faticare. Inoltre, i fatti vengono spesso riportati in modo parziale, esponendoli in modo tale da mettere in cattiva luce Israele e rendere ingiustificabili gli atti dell’esercito, forse per un istintivo bisogno di supportate la parte apparentemente più debole. Basti prendere l’esempio dei telegiornali che hanno iniziato a parlare del conflitto solo dopo che l’esercito israeliano ha deciso di intervenire nella Striscia di Gaza per far fronte ai missili continui che venivano lanciati su tutto il Paese. Per quale motivo nessuno ha parlato del fatto che centinaia di missili venivano lanciati da giorni da terroristi sulla popolazione civile di Israele? Perché i danni provocati erano limitati e fortunatamente non vi erano vittime. Questo perché Israele si è attrezzato con l’Iron Dome. Se questi costanti missili avessero provocato delle stragi forse qualcuno ne avrebbe parlato. Ma il fatto che non ci siano delle vittime (o che non ce ne siano molto) rende il pericolo di questo costante tempestamento missilistico meno pericoloso? Meno legittimo di una risposta? Solo la morte provoca notizia? E i traumi psicologi e una vita passata a correre nei rifugi antimissilistici non sono degni di attenzione?
I missili utilizzati dai terroristi di Hamas non sono solo missili Qassam, che pur essendo costruiti in loco, non sono meno dannosi senza uno scudo antimissilistico, ma sono a breve gittata. I missili di cui ora sono in possesso, oltre ai Qassam, vengono forniti dall’Iran, sono di tutt’altra natura e hanno una gittata di parecchi chilometri.
Il conflitto che è in atto non è una guerra di territorio, ma uno scontro contro il terrorismo e qualsiasi paragone tra l’esercito israeliano che sta a difendere la propria popolazione da una minaccia, rispetto alle forze di un gruppo terroristico per distruggere la stessa popolazione, è totalmente inappropriata.
A: Hai mai conosciuto un palestinese e discusso insieme di questa guerra? Cosa pensi delle iniziative educative rivolte a bambini palestinesi e israeliani per imparare a conoscersi e a non odiarsi?
S: Non ho mai conosciuto personalmente un palestinese, ma ho degli amici ebrei, in Italia, che hanno amici palestinesi. Anche loro condividono l’idea di dover liberare la striscia di Gaza dal terrorismo portato avanti da Hamas, sia contro Israele che contro la loro stessa popolazione. E’ stato provato che Hamas costringe la popolazione civile della Striscia di Gaza ad essere utilizzata come scudo umano contro l’esercito Israeliano, entrato nel territorio per distruggere i missili utilizzati per colpire Israele e distruggere i tunnel costruiti per passare illegalmente in Israele e praticare atti terroristici (stragi di massa) nelle località adiacenti ai confini.
I discorsi di pace sono sempre lo strumento principale e in Israele esistono tantissimi programmi per la pace, che vedono convivere bambini ebrei e musulmani nelle scuole. Forse tanti non sanno che, in Israele, vivono moltissimi arabi musulmani che sono regolari cittadini israeliani e, tra gli altri diritti e doveri, possono anche prestare servizio militare.
Il problema fondamentale in coloro che crescono i propri figli nel germe dell’odio, professando la distruzione di un altro popolo e di un altro Paese. Si sono viste troppe dichiarazioni dirette in cui madri palestinesi si dicono felici di veder morire i propri figli come martiri per distruggere gli ebrei e Israele. Questo tipo di discorsi non sono accettabili e fanno capire come le prossime generazioni cresceranno, sotto l’influsso di questa “educazione”. La maggior parte degli Israeliani, compresa me, crede nel diritto dei palestinesi di avere il proprio stato, ma che questo sia una democrazia, che non si basi su gruppi di fondamentalisti islamici che professano l’odio e condannano la propria popolazione alla violenza, alla sofferenza e alla povertà. Se solo la prossima generazione palestinese verrà cresciuta con discorsi diametralmente opposti rispetto ad ora, il futuro sarebbe sicuramente diverso e ci sarebbe uno spiraglio per una pace duratura da entrambe le parti.
La questione israelo-palestinese va avanti da oltre un secolo. Dallo scoppio del conflitto più recente, l’8 luglio 2014, continua a crescere il numero delle vittime. Le perdite maggiori sono soprattutto tra i civili palestinesi, secondo quanto riporta l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari: 1843 palestinesi, di cui 939 civili e 489 miliziani; i bambini palestinesi morti sono, ad oggi, 415; dalla parte israeliana i morti sono 67, di cui 3 civili. I morti dall’origine del conflitto sono tanti, molti di più. Questo succede in Israele, o Palestina, o Canaan nell’Antico Testamento, Terra Santa, Terra Promessa, terra bellissima e martoriata. Terra di morte.