La musica che gira intorno (a Sanremo)

Cosa resterà di un Festival anomalo, non solo per colpa del COVID-19

Quando leggerete questo articolo, i nomi dei vincitori e dei vinti saranno già noti a tutti. Proviamo perciò a spingerci oltre le considerazioni a caldo, i rimpianti e le polemiche per capire quale direzione abbia preso la musica italiana che abbiamo ascoltato per cinque sere dal palco dell’Ariston.

Quando Amadeus era stato designato conduttore e direttore artistico del Festival di Sanremo, i segni della gestione Baglioni erano ben riconoscibili: la tradizione aveva progressivamente lasciato spazio alla voglia di superare confini fino a quel momento quasi inviolati – con la partecipazione in gara di gruppi e artisti della scena per brevità chiamata indie – e di provare a sintonizzarsi sugli umori del pubblico più giovane. Ne erano venute fuori due edizioni di alto livello, che hanno consacrato personaggi nuovi (Achille Lauro, Mahmood, Lo Stato Sociale) e dimostrato che la forza di Sanremo poteva persino propagarsi fuori dai confini dell’Ariston. Amadeus ha metabolizzato questa lezione, applicandola scrupolosamente nell’edizione 2020, in cui gli ascolti – e le preferenze dei consumatori di streaming così come del pubblico radiofonico – hanno dato ragione a questa scelta: Diodato si è immediatamente guadagnato un posto tra gli instant classics del nostro canzoniere, ma l’apertura di credito verso i personaggi provenienti dalle retrovie della discografia tricolore (Levante e gli stessi Pinguini Tattici Nucleari), sommata agli ottimi riscontri ricevuti da nomi già affermati come Elodie, Tosca e Piero Pelù, aveva dato i suoi frutti. Un anno più tardi, Amadeus ha provato ad alzare ulteriormente il tiro, lasciando pressoché ai margini la vecchia guardia sanremese – a cui ha concesso un’unica casella, occupata da Orietta Berti – in favore di una formula che somigliava a un salto nel vuoto. L’impressione è che lo sforzo di svecchiare Sanremo, traghettandolo verso le nuove generazioni di ascoltatori, abbia funzionato soltanto in parte: per quanto possa apparire banale, stiamo pur sempre parlando di una rassegna musicale, per di più trasmessa su una rete che più generalista non si può.

I Maneskin hanno vinto il 71° Festival di Sanremo con Zitti e buoni

L’elenco delle canzoni da ricordare rischia di essere più smilzo del solito e – per un curioso contrappasso – la sensazione è che funzioneranno soprattutto quei brani che appartengono al filone della tradizione sanremese: da una parte, la romantica e misurata Ho un milione di cose da dirti di Ermal Meta, interprete versatile come pochi per varietà di temi e proposte musicali; dall’altra, la gradevole Dieci di Annalisa, il cui repertorio appare tuttavia distante dalle sue indubbie qualità vocali. Le scommesse indie hanno confermato che abusare di quest’etichetta per descrivere chi si muove all’infuori dei circuiti tradizionali è quantomeno rischioso: Colapesce e Dimartino, a cui possiamo aggiungere La Rappresentante di Lista, hanno saputo trovare il giusto compromesso tra il loro retroterra musicale – fortemente influenzato nel primo caso dalle sonorità degli anni Ottanta, nel secondo dalle atmosfere disco-funk – e l’esigenza di arrivare a una platea trasversale: non sarebbe una sorpresa trovare Musica leggerissima e Amare tra i brani capaci di sfondare anche sui network radiofonici.

Sparito quasi del tutto il cantautorato classico – che pure si era preso una bella rivincita un anno fa – gli habitués di Sanremo hanno faticato a uscire dai loro consolidati canoni: Francesco Renga e Noemi hanno replicato uno schema già consolidato, aggiungendo soltanto qualche decibel in più ai loro brani; Max Gazzè ha cercato ancora una volta il colpo a sorpresa, ma Il farmacista somiglia pericolosamente a un bugiardino in musica. I nomi provenienti dal giro dei talent show confermano una tendenza oramai irreversibile: le acrobazie dell’autotune non possono certo colmare un vuoto creativo che investe in egual misura testi e produzione, benché la serata delle cover abbia dimostrato che Gaia (e lo stesso Irama) potrebbero imboccare una strada meno accidentata in futuro. Bugo resta purtroppo un enigma irrisolto per il grande pubblico: visionario come pochi nella sua vita artistica precedente, il cantautore piemontese rischia di essere ricordato per sempre come colui che fece «il gran rifiuto», abbandonando il palco di Sanremo un anno fa, anziché per le sue canzoni (E invece sì sembra comunque riuscita solo in parte, complice una linea melodica non all’altezza del testo). Due sorprese, infine: Lo Stato Sociale ha rinunciato alla formula dell’invettiva travestita da canzone disimpegnata (ricordate Una vita in vacanza?), cadendo nella trappola del testo citazionista ma senza mordente. Gli Extraliscio e Davide Toffolo, invece, hanno dimostrato che si può essere speciali restando incredibilmente normali. Bravi.


Articolo già pubblicato sul Quotidiano del Sud – l’Altravoce dei ventenni di lunedì 08/03/2021