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La mia non storia d’amore con la Politica

ALERT: ARTICOLO MOLTO LUNGO, CHIEDO SCUSA PER IL DISAGIO

Non mi ritengo esattamente un’esperta né, tantomeno, un’amante della Politica. 
Il nostro rapporto è stato da sempre ambiguo e conflittuale e, pertanto, ho sempre preferito rimanere una passiva osservatrice delle sue dinamiche interne, per timore di non comprendere dettagliatamente il perché di tante cose che c’entrassero con il suo mondo contorto e colmo di sotterfugi e loschi modi operandi.     
Ma faccio un lungo passo indietro.

Ricordo come se fosse ieri il nostro primo incontro – tipico di chi vede per la prima volta qualcuno, ne rimane incuriosito ma procede disinteressato per la propria strada, senza spingersi quel tanto più in là da iniziare un dialogo.   

Facevo la prima elementare, all’epoca a noi bimbi speciali era concesso di iscriverci a scuola anche a soli 5 anni, e sono certa di questo dato temporale perché un compagnuccio di classe, il giorno successivo a questo episodio, mi portò in dono una penna magica che, al contatto con il foglio, si illuminava di rosa: dopo la prima elementare non lo rividi mai più (chissà che fine avrà fatto!). 

Dicevo, era un sabato pomeriggio del lontano 1999 quando mio nonno – che quel giorno aveva l’auto in manutenzione dal meccanico – decise di accompagnarmi al Parco Robinson per giocare con gli altri bambini. Ero entusiasta: mamma non mi portava mai al parco, andavo solo con nonno alla Villetta e alle giostre, era il nostro momento; ma quel sabato ero stata brava, meritavo il Parco. Non avendo, però, l’auto, prendemmo l’autobus – altresì detto “il pullman” – e al rientro lo stesso fece la sosta finale innanzi al Comune.            
Probabilmente sarò passata lì davanti milioni di volte prima di allora, ma mai come quella volta rimasi incuriosita da quel palazzo grigio con la bandiera dell’Italia. Allora, con il tipico fare infantile, chiesi a nonno Osvaldo: “Che cosa è questo?”. “Il Comune – rispose lui con la sua solita meticolosità e dolcezza-, qui vi lavorano il Sindaco e tutti i suoi aiutanti. Insieme, queste persone gestiscono la nostra città rendendola bella, accessibile, pulita, ordinata, piena di servizi per tutti i cittadini”
Sospirai. 
Non ritenevo fosse un mio problema capire la gestione di una città e dissi a nonno che avrei voluto un gelato. 
Mano nella mano, strette strette come sempre, ci incamminammo verso la Gelateria Zorro di Piazza Valdesi. 
Dimenticai subito questo incontro fugace.    

Riscoprii, poi, la Politica circa 10 anni più tardi. 

Come tutti gli studenti del liceo classico, iniziai a tradurre il greco e a scoprire l’etimologia delle parole. 
La radice della parola Politica racchiude il suo significato e mostra il segno dell’ambito cui essa afferisce: la sfera pubblica e comune.“Politica deriva dall’aggettivo greco πολιτικός, a sua volta derivato da πόλις, città. Era il termine in uso per designare ciò che appartiene alla dimensione della vita comune, dunque allo Stato (πόλις) e al cittadino (πολίτης). Non stupisce allora che la parola πολιτικός («politico») e la parola πόλις («città») condividano la medesima radice πολ- della parola che dice «i molti» (οἵ πολλοί)”(Treccani).

Lorenzo Rocci fu uno dei miei grandi amori di quegli anni e grazie a lui, quindi, iniziai a riavvicinarmi, pian piano, alla Politica.
Consolidarono, poi, la nostra relazione, la Storia e la Filosofia, il pensiero dei politici greci prima e moderni dopo.      

Ho fatto i compiti e, prima di mettermi a scrivere, sono tornata sui punti salienti della storia della Politica.
Facciamo insieme un breve excursus.

Per gli antichi greci la politica coincideva con un ideale di ordine e di giustizia, il cui riflesso spontaneo era l’orrore per la tirannide, ovvero il dominio di uno sui molti. In tale ottica si sviluppa la famosa opera di Solone: le Θεσμοί, le leggi ispirate all’εὐνομια, il buon governo nell’interesse dei consociati. Agli inizi del V secolo A.C., grazie ai sofisti, nasce il concetto di democrazia, a cui si contrappone poi il pensiero di Socrate che relaziona invece la politica all’utilità: le leggi di Atene, diventano νόμοι. 
In seguito, secondo Protagora, la politica diviene l’“arte del persuadere”: vero e falso si mescolano e perdono di significato; dissociatasi dall’etica, essa diventa precaria, contingente.    
Nel IV secolo, è poi Platone a individuare la perfetta sintesi dell’ideale politico nella Repubblica, dividendola in tre macrocategorie. Vi sono gli agricoltori e gli artigiani, cui spetta il compito di provvedere alla sussistenza dei cittadini; i militari, preposti alla difesa dello Stato; i governanti, cui spetta il compito di governare lo Stato. Ad ognuno di loro corrisponde una specifica virtù: rispettivamente, la temperanza (σωφροσύνη), il coraggio (ἀνδρεία), la sapienza (σοφία): l’armonia dello Stato dipende dall’armonia delle sue parti, che si raggiunge quando ciascuna categoria assolve al compito cui è preposta. 
È proprio questo, secondo Platone, lo scopo della legge: la politica diviene essenzialmente lo strumento per educare all’ordine. 
Per Aristotele, poi, la politica come mera gestione della cosa pubblica,  può estrinsecarsi in 3 forme: monarchia, aristocrazia, politeia (che tradotto significa “governo costituzionale” nell’accezione moderna di democrazia). Nelle stesse è possibile però rinvenire tre degenerazioni: la tirannia, l’oligarchia, la democrazia (che però nel testo artistotelico ha valore negativo, in contrapposizione alla politeia). Quest’ultime sono dispotiche: il governo della città assurge ad un modello privatistico seguendo un interesse particolare, struttura che non può trovare dimora in uno Stato di diritto.             
Pertanto, per i Greci, il fine della politica rettamente intesa non può essere che il bene comune.

A differenza dei Greci, che sono sempre stati a parer mio più riflessivi, gli antichi Romani, pratici  nell’animo, hanno da subito collegato il concetto di politica all’etica e, quindi, al mondo del diritto. 
Essi, piuttosto che ricercare genericamente il perfetto modello di governo, lo trovano nel loro Stato: la Res Publica romana diviene l’emblema dell’‘ottimo Stato’. 
Cicerone, l’oratore per eccellenza, nel De officiis insiste sulla natura giuridica dello Stato: una comunità legata da communio utilitatis et iuris consensus ovvero da comuni interessi e da un comune sentire giuridico. 

Facendo un passo di qualche secolo in avanti, ricordiamo Machiavelli secondo cui la politica, ormai scevra da legami con l’etica, non è più guidata dalla certezza del giusto e dell’ingiusto; diviene, essa, misura del giusto e dell’ingiusto: politica diviene sinonimo di potenza del principe e, quindi, dello Stato.

Ancora più tardi, la politica si identifica con l’auctoritas e trova nella volontà del sovrano il suo esclusivo fondamento: nasce l’assolutismo come espressione del processo di costituzione dello Stato nazionale su base territoriale, definitivamente sancito dalla Pace di Westfalianel 1648.   
L’assolutismo vede la sua estrinsecazione teorica nel Leviatano di Hobbes. Per Hobbes, il fondamento del potere è il pactumunionis et subiectionis con cui gli individui si sottomettono incondizionatamente all’autorità del sovrano, trasferendo su di lui tutti i loro originari diritti e poteri. Il bene comune è ora rappresentato dalla sicurezza.

Locke, in seguito,pur condividendo la teoria del contratto istitutivo della società politica, ritiene che il vincolo che lega sovrano e sudditi abbia una struttura bilaterale nella misura in cui il sovrano viene istituito per volontà degli individui e, per scongiurare la c.d. “resistenza”, egli è tenuto a non violare quei diritti che ontologicamente sono loro attribuiti: la vita, la libertà, la proprietà. In quest’ottica, la legge è l’unico limite possibile al potere politico, limite che si dirama in due concetti quali la separazione dei poteri e l’inviolabilità dei diritti individuali. 

Continuando questo cammino storico, arriviamo al XVIII secolo,in cui Rousseau vede nella politica la realizzazione di un bene comune che si identifica con ciò che emerge dalla “volontà generale”. Si sviluppa finalmente l’ideale politico democratico di matrice diretta che però potrebbe sfociare nella c.d. “dittatura della maggioranza”: a legittimare il potere è sempre il consenso, ma che in questo contesto “si autocostituisce come comune nel momento stesso della costituzione del corpo politico; e che, proprio perché tale, è privo di qualsiasi limite e di qualsiasi vincolo” (Il contratto sociale, 1762). 

Il secolo si chiude con Kant, il quale ritiene che lo Stato deve essere fondato su tre principi: libertà, eguaglianza e indipendenza. La libertà è una libertà negativa di stampo liberale: ogni cittadino può autodeterminarsi nei confini dettati dallo Stato affinchè ciò avvenga nei limiti della legalità; l’eguaglianza è un’uguaglianza formale di fronte alla legge; l’indipendenza, infine, significa che solo chi è economicamente indipendente può essere considerato cittadino pleno iuree godere dei diritti civili. Così pure la visione kantiana del contratto come idea della ragione e del consenso come fondamento del potere politico si rivela non idonea a cogliere la verace essenza dello Stato.

Hegel, poi, dirama il pensiero kantiano: “lo Stato è il luogo del superamento degli interessi individuali; è l’ente supremo, il solo autentico soggetto della Storia; è la struttura giuridico-politica nella quale si sostanzia lo spirito di popolo”. 

Si passa, poi, alla visione liberale e quella socialista di Marx ed Engels. Visioni accomunate dall’idea della politica come riflesso dell’economia e del libero mercato. Essa si struttura intorno al concetto di opposizione da cui deriva il fondamentale elemento della lotta come modalità di estrinsecazione della politica: lotta di classe – in quel contesto la classe operaia – ovvero il soggetto destinato ad attuareil rovesciamento del potere economico basato sulla proprietà privata piuttosto che sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione.

Infine, il 1900 è ricordato per la politica del nazionalismo: il soggetto politico è un ente collettivo che prende di volta in volta il nome di Volk, di nazione, di Stato. Etnia e nazione si saldano nel quadro di visioni naturalistiche in cui si insinua, con prepotenza, l’ideologia razzista. La politica abbandona definitivamente l’idea originaria di bene comune: il governo per il popolo supera l’ideale del governo del popolo.
Dopo la II guerra mondale, poi, per fortuna,la politica ritorna ad essere strumento per ricercare il bene comune e globale. 

Giungiamo ad un punto quasi definitivo: l’era del costituzionalismo moderno, l’affermazione quasi generale della democrazia. 

Il programma scolastico finì orientativamente a questo punto della storia. 
Tuttavia, a me rimaneva ancora qualche dubbio.

Iniziai a vedere Porta a Porta sfruttando Bruno Vespa per addormentarmi: vedevo in tv Berlusconi, Prodi, Brunetta, D’Alema; sentivo nomignoli, scoop, racconti imbarazzanti. 
Scioccata, decisi di spegnere la tv.

Mi iscrissi finalmente all’università: scelsi Giurisprudenza. L’amore per il diritto era innato in me, ma esplose, definitivamente, al mio approccio con la Costituzione.
Ebbene, lì scoprii quanto fossi ignorante in materia. 

Decisi di approfondire.

Frequentavo, all’epoca, diversi amici impegnati politicamente: fu l’arrivo di Renzi nel panorama politico italiano, il momento dei referendum, l’exploit di Grillo e dei pentastellati. 
Ricordo che ad ottobre del 2013 accompagnai degli amici alla Leopolda: ovviamente gli affreschi dell’opera di Brunelleschi ebbero la meglio su di me, e persi il comizio piddino. Tuttavia, quell’anno mi interessai molto di più a quello che mi accadeva intorno e iniziai a pormi domande. Iniziai a leggere e ad informarmi, chiedendo sempre ai miei amici qualche spiegazione più dettagliata. Il problema era la mancanza di obiettività: ovviamente ognuno portava l’acqua al suo mulino. Niente, non avrei mai saputo la verità da loro. 

L’amore fra di noi non sbocciò mai sul serio. 
Vani furono questi quattro approcci e tentativi di corteggiamento. 
Oggi ho 25 anni e in 7 anni penso di aver votato una sola volta.  
Non mi sono mai sentita pronta ad esprimere il mio voto con sicurezza e cognizione di causa, e, cosa più grave, non mi sono mai sentita rappresentata in toto da nessuno. 
In Italia vige la regola del “vota chi ti sta più vicino”, la virtù del clientelismo. 
A questo, personalmente, preferisco la scheda bianca, espressione di un disagio comunicativo e generazionale. 

Ho 25 anni e in 7 anni ho scelto di non esprimere il mio consenso per “il meno peggio”, ma di urlare – forse inutilmente- il mio dissenso verso un sistema politico sporco, individualista, che non esercita nell’interesse della cosa pubblica e dei cittadini; un sistema politico costellato da ignoranti, arroganti, depravati, stolti. Di mafiosi? Si, anche di mafiosi. 

Oggi, in Calabria, come in altre regioni dello stivale, si tengono le elezioni regionali. 
Santini dappertutto, vecchi amici che improvvisamente resuscitano, comizi in ogni dove, statistiche improbabili, promesse che non verranno mai mantenute. 

C’è tanta falsità in questa politica odierna, tanta pochezza e poca genuinità. Complotti, fazioni e troppo opportunismo.

La politica è un’opportunità non opportunismo

E’ un’opportunità comune, di miglioramento della vita dei consociati a prescindere dal colore e dalla bandiera che portano nel cuore. 
La politica va parametrata a degli obiettivi e soprattutto vissuta nell’ottica del rispetto della legge, unico vero limite eargine al potere dei governanti.

Sfruttando l’ignoranza dilagante di questo paese, i nostri politici avanzano al fine ultimo di riscuotere uno stipendio dignitoso e sperimentare quella sensazione assolutistica di potere nelle loro mani, senza fare, mai, nulla di buono; anzi, distruggendo anche quel patrimonio storico e culturale, quella dignità che con difficoltà i nostri antenati, lottando, avevano ottenuto nel panorama mondiale.

Ormai, si sa, l’Italia è una barzelletta.

Io allora faccio un appello a noi giovani: è compito nostro trarre una lezione di vita dall’esperienza dei nostri avi, dagli antichi Greci ai giorni nostri, e non buttare alle ortiche quanto di poco e di buono ci è oggi rimasto. 

La gestione della politica è la gestione della nostra vita e dei nostri interessi collettivi: la legge è l’unico strumento che ci consente una regolamentazione ordinata e sicura e ci permette di raggiungere un obiettivo fondamentale: la sicurezza. 

Affidandoci a questa classe di politici incompetenti vi è solo il rischio di un declino inesorabile, andata senza ritorno, e i tempi duri a cui andiamo incontro non ce lo permettono. 

Occorre studiare, conoscere e capire per andare preparati innanzi a chi si permette di ritenersi idoneo a rappresentarci, per scegliere consapevolmente e dignitosamente. 

Ci vuole educazione civica, coscienza, poca inclinazione a delinquere.

Bisogna credere in un progetto comune e impegnarsi nella sua realizzazione.

Vi è una emergenza sociale non irrilevante: il dato più grave è la sfiducia nel prossimo, in chi ci è vicino. Crediamo sempre che l’altro sia pronto a incastrarci: siamo diffidenti e chiusi in noi stessi.

Bisogna smettere di essere così reticenti al dialogo costruttivo per la ricerca di nuove durature soluzioni ai problemi delle nostre realtà territoriali.

E, soprattutto, occorre un ricambio politico di non poco conto: nuove leve, sane, pure, che credano in un progetto, non manovrabili da chi siede ancora sulle poltrone dei palazzi di governo. 

Andate via, lasciateci spazio. 

E noi giovani italiani (del Sud, del Centro e del Nord) cerchiamo di (ri)prenderci tutto, legittimamente, sapientemente, coraggiosamente. 

Mi sono ovviamente dilungata, chiedo venia. 
Per questo non parlo mai di Politica, perché ne so poco e mi servono troppe parole per spiegarmi. 

Ma comunque… 

Nella speranza di riuscire a scegliere il candidato giusto e non il meno peggio, auguro a tutti un buon voto. 

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