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La fitta nebbia dei social network

Sono le 7.30 di mattina, ho talmente tanto sonno da non rendermi conto neppure della sveglia che continua a suonare. Allora, mentre aspetto che sia pronto il caffè, cosa faccio?
D’impulso, prendo il telefono, apro Facebook e inizio a spulciare la mia homepage. Riconosco che sia una pessima abitudine, specie perché potrei accendere la tv con lo stesso scopo.
Ma preferisco lasciarmi annoiare oppure interessare dalle cose che vedo.
Ed ogni volta, sempre di più, mi sembra che Facebook sia la sagra delle frecciatine e dei messaggi tra le righe. E perché?

Comunicare è difficile, dovrebbe non esserlo, eppure è così.

Parlare è diventato un compito arduo e faticoso, è preferibile scrivere uno stato, postare un articolo, modificare una foto.
Al diavolo le vecchie e care chiacchierate al telefono o davanti un caffè, per quelle non c’è mai tempo. Si preferisce messaggiare per ore su WhatsApp, sperare di dire le cose esatte per colpire nel punto desiderato. Altrimenti è un problema, perché se chi è dall’altra parte non capisce ciò che vogliamo dire, ogni cosa si complica, tutto diventa terribilmente complesso.

Penso alla fastidiosa e pungente scritta “visualizzato alle 14.56” che diventa un vero e proprio trauma. Ti ritrovi come un deficiente a controllare quelle quattro cifre quasi costantemente, come se potessero cambiare.
Ma, ovviamente, non accade mai nulla, tutto rimane uguale: il messaggio senza risposta e lo schermo del telefono senza notifiche. Sì, lo ammetto: una roba patetica!

Perché siamo arrivati a questo punto?

E’ questa realtà distorta, questa necessità di dover leggere doppi fini in ogni dove che è nociva e snatura la nostra percezione delle cose.
Dobbiamo confrontarci con un mondo che corre veloce, che ci propina Iphone nuovi di zecca che riconoscono il nostro volto, le nostre impronte digitali, ma non ci aiutano a venir fuori come essere umani. Passiamo ore ad ore incollati ai telefoni o ai computer alla ricerca di risposte, di modi per far sentire la nostra voce ma senza mai farlo davvero, perché abbiamo paura degli altri.

Pensate, banalmente, a quanto sia diventato macchinoso iniziare una relazione con qualcuno, a quanto, dietro un semplice “ciao come stai?” ci sia dietro un’analisi approfondita del profilo, ultimo accesso, foto personale e via dicendo. Non è necessariamente sbagliato, specie se si tratta di qualcuno che non conosciamo bene, ma manca di spontaneità, rischio. C’è qualcosa di non autentico in tutto questo. Non ci buttiamo in un dialogo aperto e onesto, preferiamo emoticon, immagini, link, gif, ambiguità.
Lentamente, ci stiamo privando della capacità di aprirci gli uni con gli altri senza dover pensare a “mi risponderà? E se non lo fa? Se visualizza e non risponde?”. Quindi, se non riusciamo a scrivere alla persona che ci piace “ti va di vederci oggi?”, perché sentiamo la necessità di condividere sui nostri social, ogni cosa che facciamo?

Le home di Instagram sono colme dei nostri momenti quotidiani, dei nostri pasti, feste, ore di studio e lavoro, ma in nessuna di queste “storie” che mettiamo, comunichiamo realmente qualcosa. A guardar meglio, lo scopo di Facebook e compagnia bella, non dovrebbe essere proprio quello di condividere? Non dovrebbero rappresentare una rete che unisce, aggrega? Invece, non fanno altro che allontonare, turbare la serenità di ogni rapporto. Niente di tutto quello che vediamo è chiaro e limpido, anzi, diventa opaco. Probabilmente, abbiamo perso il senso dello strumento: anziché essere un mezzo, è diventato un fine.
Si è persa ogni intimità, tutte le relazione sono rese pubbliche fino allo stremo, con rappresentazioni grottesche di piccoli scorci di vita privata.

Ed è allora che la realtà si filtra, cambia di colore e diventa nera, senza possibilità di uscita.

Questa ossessione social è pericolosa, distorce la realtà, si insinua nei nostri stati d’animo, in quello che proviamo, acuendo un senso di insoddisfazione e infelicità.
Dovremmo godere di più delle nostre emozioni, paure, insicurezze; forse dovremmo lasciare che a governarci sia quella spinta irrazionale che ci spinge a prendere decisioni sbagliate, a compiere follie, a vivere senza cadenzare ogni secondo sui social, senza dover condividere per forza la nostra allegria o tristezza con una foto del tramonto, del mare, di un’alta montagna.
Dovremmo camminare per le strade della nostra città con le tasche piene di sogni, soldi spicci e scontrini; perdere i nostri occhi nell’orizzonte, senza prendere il cellulare per immortalare il momento. Nessun telefonino ci restituirà il tempo in cui siamo stati bene, e potremmo pentirci di non aver assaporato fino in fondo ogni attimo. Sarebbe sufficiente guardarsi dentro e distinguere la realtà vera da quella che ci siamo costruiti con le nostre manie, che ci circondano come una nube grigia. O meglio, come una fitta nebbia.

Dovremmo sederci in silenzio ad aspettare che si dissolva, per far sì che la luce restituisca vero colore alle cose.

 

 

Prima di lascarvi, vorrei fare un ringraziamento all’amico Piero Nudo, che è riuscito, con un disegno intenso e bellissimo, a racchiudere il  senso di questo articolo! Piero ha gentilmente assecondato la mia richiesta di un’illustrazione, regalando alle parole un’immagine che spero possa colpirvi dentro tanto quanto  ha fatto con me!
Per rendervi conto di quanto sia bravo questo giovane cosentino, vi linko la pagina Facebook in  cui ha raccolto gran parte dei suoi lavori!
NUDO.
Io, intanto, spero collaboreremo di nuovo insieme per promuovere l’arte in svariate e splendide forme!

Illustrazione a cura di Piero Nudo

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