Levante, dopo il successo di “Manuale distruzione”, torna i primi del mese scorso con un album pop, frizzante, pregno di amore. Un album che è una promessa e un’esortazione, oltre che un tatuaggio sul suo polso sinistro: “Abbi cura di te”.
E di strada ne ha percorsa tanta dal singolo del 2013 “Alfonso”, che ci ha fatto cantare a squarciagola per mesi Che vita di merda. Levante, al secolo Claudia Lagona, è cresciuta, lasciando dietro sé la rabbia post adolescenziale del primo disco, i tormenti interiori, le guerre intestine. La ritroviamo ancora più bella (si può dire? Si può dire.), immersa in una dimensione più intima, in cui pop e cantautorato si fondono, guidandoci in un viaggio alla scoperta del sé e dell’amore che dovremmo tutti imparare a nutrire, innanzitutto per noi stessi.
C’è un che di sbarazzino, nel modo in cui Levante si mostra al pubblico. Crolla ogni confronto con Carmen Consoli, con cui divide la terra d’origine (la Sicilia, ndr) e la partecipazione al SXSW di Austin, in Texas. Crolla ogni etichetta, ogni timore di un album banale. Perché Levante gioca con la chitarra acustica, l’elettronica, gli arrangiamenti spregiudicati e divertenti: non è solo una cantautrice, non è solo una cantante pop. È una viaggiatrice, e chi l’ascolta viaggia con lei.
Si inizia con “Le lacrime non macchiano”, brano che io continuo a cantare a squarciagola e che riesce a farmi ballare come se avessi dieci anni in meno. Perché anche io ho speso cifre improponibili in make-up e ho sbattuto la testa contro il muro pur di avere tra le mie mani la bellezza assoluta dell’amore. E siamo tutti, prima o poi, “felici che la vita si sia accorta di noi”.
Si continua con “Ciao per sempre”, che è un saluto agli amori destinati a finire di cui ricorderemo sempre il buono ma da cui si deve andare via, senza guardarsi indietro.
Segue “Abbi cura di te”, che è il mio santuario, il mio rifugio. È una carezza leggerissima sulla mano e sul viso, un augurio, un incoraggiamento. Un fiore da non sciupare. Un brano da apprezzare, facendo a meno delle mie iperbole. “Per ogni passo che ho fatto per venire fino a te, per quelli che farei, per quelli che farò”.
“Caruso Pascoski” riporta in pista, con un ritmo accattivante; “La rivincita dei buoni” solleva le guance; “Contare fino a dieci” rievoca l’estate, il mare, i falò, quella rabbia che sobbolle; “Tutti i santi giorni” è un sospiro profondissimo innanzi ai personali muri dei rimpianti che stravolgono gli equilibri.
“Finché morte non ci separi” è il brano che, al primo ascolto, ha riempito i miei occhi di lacrime e il mio cuore di dolcezza. Levante canta con una madre che definisce un Franco Battiato al femminile, in un una preghiera, un saluto, un cappello levato in segno di rispetto. Dal minuto 2:55, esplode. In fuochi d’artificio che straziano e rimettono a posto ogni pezzo.
“Mi amo”, “Pose plastiche” e “Biglietti per viaggi illimitati” reggono egregiamente la seconda parte dell’album, che si chiude con “Lasciami andare” (che appare in due versioni, di cui una acustica). Per toccare il fondo, ripulire le braccia dalla polvere e ritornare a galla. Per respirare ancora.
“Abbi cura di te” è un album mai banale, più complesso, che lascia emergere una indubbia capacità narrativa ed un gusto sopraffino per gli arrangiamenti.
Questo disco è una festa. In cui sgomitare dalla felicità, liberi.