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La censura al contrario, ovvero quando il social è più coscienzioso del Capo di Stato.

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La censura prende il nome dalla magistratura che nell’antica Roma si occupava di effettuare censimenti periodici sulla popolazione; il termine, dunque, nasce con un’accezione totalmente diversa da quella odierna e privo di connotazione negativa.

Con il tempo, la censura è diventata una forma di controllo sociopolitico e morale operato dall’istituzione dominante in una determinata comunità sulle manifestazioni del pensiero e sull’accesso alle informazioni da parte dei membri della comunità stessa. Difatti, i magistrati censori dell’antica Roma – ben presto – iniziarono ad occuparsi, oltre che dei censimenti, della vigilanza sulla condotta etico-morale dei cittadini censiti.

In altre parole, potremmo dire che, quando l’uomo ha smesso di occuparsi esclusivamente del procacciamento del cibo ed ha cominciato – nello sviluppare una propria dimensione privata “estranea” alla società – ad avvertire la necessità di esprimersi, di prendere posizione, di definire una propria coscienza sociale, l’Autorità – qualunque essa fosse – ha ritenuto indispensabile ricorrere al controllo e, se necessario, alla censura.

A seconda dell’istituzione sociale predominante può aversi una censura di tipo religioso (contro l’eresia, ad esempio), di tipo politico (si pensi ai regimi totalitari e al loro uso della propaganda) o di tipo morale.

Non è detto che queste tre tipologie di censura si escludano tra loro, anzi: molto spesso, quando l’Autorità statale agisce con il supporto dell’Autorità religiosa o di uno o più gruppi di pressione, le tre tipologie si sovrappongono, generando un sistema di censura totalizzante che colpisce – in maniera trasversale – tutto ciò che afferisce alla libera espressione del pensiero e, quindi, al dissenso. Nella storia si registrano numerosi esempi di censura, sia di un solo tipo, sia generalizzata (nella concezione anzidetta).

Qualche esempio: nel 325 d.C. il Concilio Ecumenico di Nicea decise di reprimere il culto dell’arianesimo; nel 1852 il romanzo “La capanna dello zio Tom” di Stowe venne ritirato in USA da molti stati del Sud perché anti-schiavista; nel 1866 toccò al celebre quadro di Courbet “L’Origin du Monde”; all’inizio degli anni ‘30 in USA venne adottato l’”Hays Code”, codice di condotta per le produzioni cinematografiche; nel ‘37 il regime fascista in Italia istituì il Min.Cul.Pop., per controllare la propaganda e – similmente – la Germania nazista vietò libere manifestazioni artistiche quali la Scuola Bauhaus; per anni, in U.R.S.S., venne vietata la pubblicazione della “Fattoria degli Animali” di Orwell; nel ‘59 Papa Paolo IV elaborò un indice dei libri proibiti, dei quali era vietata la diffusione; “La Dolce Vita” di Fellini venne ritirata per alcuni mesi “per ragioni di ordine pubblico”; nel ‘62, durante la trasmissione Canzonissima, Franca Rame e Dario Fo vennero immediatamente allontanati non appena iniziarono a parlare di mafia e morti sul lavoro; censurata per anni su diverse emittenti radiofoniche anche la canzone “Dio è morto” di Guccini. Gli esempi si sprecherebbero, e ci vorrebbe un articolo a parte. Tuttavia, è già possibile osservare come – nei casi che precedono – sia stata l’Autorità a censurare l’arte o i media, con lo scopo di servirsene, di utilizzarli e governarli per rafforzare la propria influenza sul tessuto sociale, o per controllare (e reprimere) gli impulsi rivoluzionari o di rottura provenienti dalla base.

Con gli anni e con il sempre più ampio riconoscimento della libertà di stampa, l’utilizzo dei mezzi di informazione da parte delle Autorità non è scomparso, ma cambiato. I leader di tutto il mondo, oggi, accrescono il proprio consenso grazie ai media, non censurandoli – sia ben chiaro – ma modellando le proprie strategie di marketing rispetto ai dati da questi provenienti, in primis dai social network. Di qui, tutte le questioni sollevate in merito alla protezione dei dati e al rapporto comunicazione-potere.

Facciamo qualche altro esempio, più attuale: Twitter a marzo ha censurato alcuni tweet del Presidente del Brasile Bolsonaro che minimizzava il rischio Covid; poche settimane fa, sempre Twitter (si è parlato di Twitter diplomacy) ha sospeso circa 7000 account pro-Erdogan; dopo i fatti di Minneapolis, ha oscurato – come fatto già in passato – alcuni cinguettii di Trump, accusandolo di esaltazione della violenza. Stessa cosa ha fatto Snapchat; e anche Facebook, durante la memorabile e caldissima estate salviniana del 2019, aveva già provveduto a bloccare diversi post dell’account Lega – Salvini Premier per incitamento all’odio.

Ebbene, dunque: i leader appena nominati, molto simili tra loro soprattutto in quanto a strategie del consenso, sono stati censurati proprio da quegli stessi social che ne avevano consentito la ascesa. È stato il mezzo di informazione stesso, quasi autocensurandosi, a non poter accettare la fiera di violenza verbale, montaggi artefatti, inesattezze statistiche e false notizie che generava un hype politico mai visto prima. Questo fa riflettere, fuori da ogni riflesso politico, sul punto cui si è giunti nella comunicazione e nella narrazione del potere. Non più, dunque, un potente leader che – assurgendo a depositario della verità – pilota l’informazione; bensì, al contrario, uno strumento di comunicazione che, dato (vivaddio!) un limite ai contenuti pubblicabili, ha oscurato gli eccessi del leader il quale, in totale spregio dei fondamentali diritti in tema di libera informazione, aveva costruito il suo consenso sulla distruzione del dissenso, il suo potere sulla menzogna e sull’insulto. Che si tratti o meno di una presa di coscienza, ciò che è (e dovrebbe) essere chiaro a tutti è che – quando un’autorità (la minuscola è voluta) arriva a spararle così grosse da essere bloccata dallo stesso strumento che le ha conferito spazio – allora, forse, i valori base di lealtà e competenza, che dovrebbero orientare chi dichiara di volersi occupare della cosa pubblica, stanno esalando l’ultimo – definitivo – respiro.

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