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Il Mondiale in Qatar visto dagli occhi di un tifoso italiano non partecipante

Diciamocelo apertamente: essere tifosi della Nazionale Italiana, negli ultimi tempi, non è stata proprio una passeggiata. Come un’altalena di emozioni contrastanti che, a cadenza di due o quattro anni, riesce a tirarti fuori sentimenti lontani anni luce l’uno dall’altro.

Gioia, euforia, dolore, sofferenza: stati d’animo che, a volte, si danno il cambio con una velocità repentina ed impressionante. Neanche il tempo di festeggiare per la vittoria dell’Europeo che, pronti via, ci siamo ritrovati a disinfettare le sanguinose ferite per la mancata qualificazione alla coppa del mondo. L’euforia ha lasciato spazio allo sgomento. E si è finiti dall’apice al fallimento in otto mesi; dai festeggiamenti in piazza al divanetto dello psicologo in meno di un anno. E nessuno si è assunto le proprie responsabilità. Né Roberto Mancini, né il presidente della FIGC Gabriele Gravina, come se stessero rappresentando una squadra di club e non una nazione. 

Il Qatar – e con essi i dodici stadi che hanno ospitato il Mondiale – lo abbiamo ammirato dall’alto del divano di casa nostra. Senza sciarpe tricolore, né trombette o cene in famiglia. Il tutto sforzandoci di dare un senso a questa competizione che, fortunatamente, volge quasi al termine. D’altronde noi italiani medi siamo persone semplici: la felicità la otteniamo attraverso una Peroni ghiacciata (anche in inverno), una pizza e una partita di calcio in televisione. Eppure, capita che a volte ci comportiamo come la volpe quando non arriva all’uva. 

Non ci siamo qualificati al Mondiale e, di conseguenza, ne abbiamo avuto inizialmente un rifiuto, fingendoci disinteressati. Abbiamo cercato ogni appiglio per boicottare la manifestazione o il presidente della FIFA Gianni Infantino. Sporcarli e snobbarli facendo leva sulla particolare cultura qatariota. Uno stratagemma atto a mascherare che, in fondo, eravamo e siamo ancora oggi delusi dalla mancata qualificazione degli azzurri. Ma non c’è stato verso di mantenere il punto, di mostrarci coerenti con noi stessi. Il richiamo di questo sport è stato talmente forte che non siamo riusciti a voltarci dall’altra parte, a fare gli indifferenti. Non che ci fossero dubbi a riguardo. 

Abbiamo accantonato i pregiudizi verso il Qatar e ci siamo divertiti insieme alle giocate di Kylian Mbappé, ai gol di Richarlison, alla voglia di Cody Gakpo, alla classe di Lionel Messi e alle telecronache faziose di Daniele Adani, ma avevamo bisogno di rendere questa esperienza più attraente e appagante possibile. Trovare, insomma, un modo per farci coinvolgere al 100%, nonostante fossimo italiani non partecipanti. Ci siamo riusciti in ben due maniere: giocando al Fantamondiale e scegliendoci una squadra per cui fare il tifo. 

Il Fantamondiale – tra pronostici, teorie tattiche e l’immancabile “botta di fortuna” – ci ha resi competitivi, sul pezzo, nel nostro piccolo partecipi a una realtà che non ci siamo meritati. La scelta della squadra da omaggiare é, invece, ricaduta a turno sulle favole di questo Mondiale. Prima sull’Arabia Saudita del CT Hervé Renard, con la clamorosa vittoria contro l’Argentina e lo straordinario gol di Salem Al-Dawsari. Poi sulla Corea del Sud dei cloni Kim (chiedere al telecronista Rai), promossa da seconda nel girone dopo la vittoria sul Portogallo. Successivamente sul Giappone degli idoli Holly e Benji, capaci di battere sia Germania che Spagna. E infine sul Marocco dell’ex Inter Achraf Hakimi e dell’eterno promesso sposo al Milan Hakim Ziyech, che agli ottavi di finale ha eliminato a sorpresa la Spagna ai calci di rigore. Squadre solo sulla carta inferiori, che abbiamo preso a simpatia, tra aneddoti, curiosità e valori espressi in campo. Senza dimenticare di citare il Ghana che, alla vigilia dell’esordio nel Mondiale, rischiava di scendere in campo senza le proprie divise, dimenticate accidentalmente a casa. O il Camerun e il Senegal, allenati entrambi dai sosia di Snoop Dogg. Insomma, trovare una squadra da tifare con la speranza di non vedere trionfare eterne rivali come Francia e Inghilterra. 

L’assenza della nostra Nazionale, in un modo o nell’altro, ci ha spinti a partecipare in altre vesti, conoscendo nuove squadre, nuovi potenziali talenti e facendoci aprire a nuove culture calcistiche. Non sempre tutte le umiliazioni vengono per nuocere. Anche se preferiamo di gran lunga trovarci nuovamente davanti ad un maxischermo e piangere. Questa volta di gioia.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni

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