Il nuovo coronavirus non guarda in faccia nessuno e l’emergenza che scatena colpisce tutti, persino il diritto allo sciopero e le manifestazioni previste per il 9 marzo.
Partiamo con ordine.
A quattro anni di distanza dal primo sciopero femminista e transfemminista, l’intenzione era quella di replicare la sollevazione globale e includere tutte le lotte delle soggettività dissidenti in una sola ondata colorata. La sfida lanciata quest’anno era duplice: moltiplicare luoghi, tempi e modi della rivolta organizzando per l’8 marzo la giornata globale di mobilitazione sui territori e indicendo per il 9 marzo una giornata di sciopero. Lo scopo era quello consueto: consentire alle donne e ai dissidenti tutti di riappropriarsi delle case, dei luoghi di studio e lavoro, delle città tutte trasformando l’agitazione in una strategia animata da desideri e obiettivi comuni: vite libere, autonome e autodeterminate.
Perché lo sciopero femminista e transfemminista altro non è che – cito testualmente il movimento Non Una di Meno – un atto politico di rifiuto della violenza.
Il contesto in cui viviamo è fatto di ingiustizie, disuguaglianze e discriminazione che colpiscono donne e persone LGBTQIA+ e i dati sulla violenza di genere sono allarmanti.
Il femminicidio è la forma di violenza contro le donne più estrema. A livello mondiale la maggior parte delle vittime di omicidio è di sesso maschile, ma le donne hanno (molta) più probabilità di morire per mano di qualcuno che conoscono. Secondo un recente studio delle Nazioni Unite, il 58% degli omicidi di donne è stato commesso da partner, ex partner oppure familiari. Ogni giorno, nel mondo, si verificano 137 femminicidi. In Italia, le vittime di femminicidio sono state 131 nel 2017, 135 nel 2018 e 103 nel 2019. A livello globale, secondo i dati raccolti attraverso il Women, peace and security index, circa 15 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni hanno subito violenza sessuale e nella maggior parte dei paesi le adolescenti hanno più probabilità di essere stuprate da partner o ex partner. In Italia, il 31,5% di donne dai 16 ai 70 anni ha vissuto una qualche forma di violenza sessuale o fisica e ben 43.467 sono le donne che si sono rivolte a un centro antiviolenza lo scorso anno. I percorsi di fuoriuscita dalla violenza non prevedono sussidi e i finanziamenti pubblici per gli stessi centri antiviolenza sono pari a 0,76 centesimi per ogni donna che vi si rivolge.
Ma la violenza e le discriminazioni hanno tanti volti.
Le donne sono retribuite in media il 23% in meno rispetto ai colleghi uomini, anche quando sono più istruite; con il crescere del livello di istruzione, il differenziale salariale cresce fino al 38,5%. Più di 1.400.000 donne ha subito molestie sul luogo di lavoro e, quando si tratta di soggettività LGBTQIA+, queste vengono taciute.
La povertà femminile aumenta: l’Italia è il quartultimo paese in Europa per occupazione femminile, pari al 48%, e spesso si tratta di lavori precari, mal pagati e svalutati. Questi numeri parlano di una violenza economica dilagante, che mina l’autodeterminazione e l’indipendenza delle donne e delle persone LGBTQIA+.
Il tasso di medici obiettori di coscienza è inoltre pari al 70% medio nazionale e, dal 2003 a oggi, più di un milione di donne ha denunciato di aver subito pratiche mediche violente e degradanti in sala parto.
Riappropriarsi delle piazze nella giornata dell’8 e scioperare il 9 sarebbero stati segnali concreti di una lotta di tante e tanti per tutte e tutti, fatta di assunzioni di responsabilità e richieste di cambiamenti sostanziali. Eppure, il diritto allo sciopero sancito dall’art. 40 della Costituzione deve cedere il passo al diritto alla salute. L’epidemia di COVID-19 ha portato a un divieto formale da parte della Commissione di Garanzia, che si aggiunge alle pesanti conseguenze che alcune ordinanze regionali avevano paventato su donne e lavoratrici che avevano manifestato la volontà di scioperare. Le misure cautelative stanno cambiando nostro malgrado la nostra vita sociale, costringendoci a distanze di sicurezza che rischiano di allontanarci non solo l’un l’altro ma anche dai temi e dalle lotte di cui tutti abbiamo bisogno.
Ognuno di noi può contribuire – attraverso pratiche e linguaggi inclusivi e paritari – a dare voce e visibilità contro chi ci vuole isolate, silenti, sottomesse.
Prevenire le forme di violenza e discriminazione significa combattere per sradicare le radici culturali e gli stereotipi legati a sessismo e ruoli di genere e queste giornate di isolamento possono diventare un’occasione di discussione e confronto con le diverse generazioni.
Chiediamo a gran voce, a partire dai nostri nuclei familiari e dai contesti lavorativi, rispetto per le donne, le figure precarie e le soggettività non conformi alla norma eteropatriarcale.
Chiediamo salari minimi garantiti, sicurezza sul lavoro, congedi parentali retribuiti al 100%, welfare universale e inclusivo, case rifugio e consultori laici, l’abrogazione dei decreti sicurezza, cittadinanza per chi nasce e cresce sul territorio italiano, libertà di movimento e permesso di soggiorno europeo per migranti, nuovi modelli di sviluppo basati sulla giustizia ambientale e sulla redistribuzione della ricchezza.
Rivendichiamo il potere di sottrarci ai ricatti della violenza domestica, istituzionale, economica, mediatica e giuridica.
Vogliamo un 8 e 9 marzo per tutte e tutti in cui la nostra voce possa essere ascoltata anche senza l’ausilio di piazze e megafoni. Non più una festa, ma un’occasione di riflessione, confronto, dibattito, crescita della società tutta. Affinché nessuno rimanga indietro e nessuna violenza venga più taciuta.
Già pubblicato su Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei Ventenni 9/03/2020