Il paradosso di uno Stato laico
Il 30 settembre, all’indomani dell’infuocato (e scioccante) primo dibattito tra Trump e Biden, il segretario di Stato Mike Pompeo è arrivato a Roma con l’esplicito obiettivo di costruire, ove possibile, un percorso di riavvicinamento tra gli USA e i suoi due storici alleati, l’Italia e il Vaticano.
Alleati che, però, negli ultimi tempi si ‘sarebbero allontanati’ da questa tradizionale cooperazione, promuovendo sempre più frequenti momenti di dialogo con i cinesi.
Il pomo della discordia sarebbe, dal lato del Governo, la questione 5G e, da quello della Santa Sede, l’accordo provvisorio stipulato tra il Papa e Pechino, che rivede l’iter per le nomine dei vescovi cinesi: in pratica, questi verranno scelti per elezione dai rappresentati cattolici delle diocesi, ma dovranno essere approvati dalle autorità cinesi.
Il Papa non ha ricevuto Pompeo, comunicando di non poter ricevere segretari di Stato in campagna elettorale; le interlocuzioni sono avvenute con il cardinale Parolin e sembra siano andate anche per il verso giusto, considerato che Pompeo ha dichiarato – non appena terminato l’incontro – di avere una “forte intesa con l’Italia sulla risposta alla sfida Cinese”.
Ma, se da un lato è presumibile che – dopo i fortissimi attacchi reciproci durante il lockdown – Cina e USA siano sull’orlo di una ‘guerra fredda’ per cui ogni pretesto diventa motivo di rottura diplomatica, dall’altro lato è innegabile che tale vicenda conduce, ancora, verso una riflessione sui rapporti tra Governo cinese e professioni religiose.
La domanda che, tra le altre, da tempo ci si pone, è tanto semplice quanto sprovvista di riscontri univoci: come può uno Stato – dichiaratamente laico – che conta circa un miliardo e mezzo di abitanti e in cui il potere è esercitato dal solo Partito Comunista governare le tensioni che naturalmente scaturiscono dall’incontro di culture, tradizioni e spiritualità diverse?
Il PCC ufficialmente riconosce (e gestisce in maniera centralizzata) cinque religioni ufficiali: buddhismo, taoismo, protestantesimo, cattolicesimo e l’islam, di cui le ultime due minoritarie. Oltre queste, vi è la religione tradizionale cinese, spesso confusa anche se non del tutto propriamente con il confucianesimo, che è composta da un insieme “credenze native”.
Il taoismo e il buddhismo, insieme al confucianesimo, costituiscono le cosiddette “tre dottrine” e sono la cornice entro cui si collocano le varie tradizioni popolari di cui si è detto.
In Cina, però, sono presenti anche alcuni gruppi “irregolari” – definiti dal Governo centrale come “sette demoniache” o “dottrine maligne”, in quanto in contrasto con l’Autorità statale – chiamate “xiejiao”.
È proprio riguardo a queste ultime che si è manifestata, nella storia, quella capacità repressiva che ha reso la Cina invisa a buona parte del mondo liberale occidentale.
Sin dal periodo dei Ming, queste “dottrine maligne”, vengono monitorate e, se del caso, perseguitate e represse dal Governo: tutte queste organizzazioni sono inserite in apposite liste ufficiali, con indicazione dei membri e dei luoghi di aggregazione.
Una delle più autorevoli ONG che si occupa di persecuzione religiosa (C.S.W.), proprio nel marzo 2020 ha pubblicato un rapporto sulla Cina, evidenziando come siano frequenti da parte delle Autorità episodi quali la distruzione dei luoghi di culto non registrati, la chiusura forzata di chiese (come la Home of Christ Church nel Guangdong), le minacce di revoca dei sussidi alle famiglie cristiane di ceto medio-basso che non rinunciano al proprio credo, le intimazioni a “dimostrare la fedeltà al Partito” indirizzate ai leader dei movimenti spirituali ‘sospetti’.
Sarebbe quindi opportuna una riflessione più approfondita, da parte della Comunità internazionale, sul rispetto dei diritti umani e della libertà di religione in Cina, considerato anche che quest’ultima è partner commerciale di tutti gli Stati occidentali, i quali, forse, dovrebbero assumere in merito posizioni più intransigenti e meno ambigue.