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“I giovani devono viaggiare”: si, ma come?

Gira la chiave, accendi il quadro, scalda il motore, spingi sulla frizione, ingrana la prima, piede sull’acceleratore, pronti? Si parte.
Voglio accompagnarvi in una gita speciale quest’oggi, il viaggio nella mia rabbia e nella mia rassegnazione; ma sono sicura che, alla fine dello sfogo, vi troverete d’accordo con me.

I giovani devono viaggiare” è un dogma, uno slogan, una sorta di motto fra noi di Venti.
Vi raccontiamo spesso le esperienze di molti ragazzi che vivono, studiano, lavorano (o lo hanno fatto in passato) all’estero.
L’estero: il magico mondo che sta al di fuori di casa nostra, il luogo dell’ignoto, quel posto in cui si accende vivida la nostra curiosità. Partire, quindi andare fuori, è sempre un’occasione.
Il problema non è dove, il problema, in Italia, al Sud nello specifico, è il come.
Le infrastrutture sono carenti o – quando esistono – sono scadenti, e non permettono di effettuare con agilità spostamenti da una parte all’altra.
Gli aeroporti sono dei luoghi mistici dove la competenza e la professionalità sono dei concetti aleatori, dove se ti permetti di richiedere legittimamente i sistemi elettronici o tecnologici, gli addetti ai lavori innalzano la clava per ricordarti l’era in cui viviamo: la preistoria.
Le stazioni dei treni, poi, sono il rifugio dei disperati: treni in continuo e consuetudinario ritardo, assenza conclamata di posti per piedi e valigie, collegamenti ferroviari sul territorio irrealizzati (e forse ancora sogni irrealizzabili).
E che dire degli autobus, l’unica soluzione “sicura” e conveniente (si, ma per le brevi distanze).
Impensabile arrivare in Piemonte o in Lombardia dalla Calabria, ma altresì allucinante (ad esempio) trascorrere la tratta Siracusa – Cosenza.
Non esistono voli diretti internazionali, e già questo, nel nuovo millennio, è inaccettabile; ma l’assenza dei collegamenti domestici fra regioni che idealmente, ad occhi nudo, distano pochi km, è un vero e proprio disagio. L’infrastruttura è il vulnus del nostro paese, un cancro gravissimo.
Pensare di poter vendere un volo diretto di un’ora e quaranta per volare da Milano Linate a Lamezia Terme a 400,00 € è una malattia; pensare di poter distruggere i bagagli dei passeggeri “perché tanto funziona così” è una malattia. Non pretendere dal governo centrale o anche succursale e locale una soluzione è una malattia.
Io voglio sentirmi libera di andare in ogni dove e voglio una porta che mi permetta di attraversare il paese dal collo alla punta dello stivale, e che mi porti ovunque, nel modo più semplice possibile; non economico per forza, ma che almeno il servizio valga il costo. Oppure proponendo delle soluzioni economy a prezzi vantaggiosi a discapito della comodità che è comunque un modo per garantire un servizio a tutti gli effetti.
L’Italia è uno Stato che ci tarpa le ali, che ci relega fra le quattro mura di casa nostra, che per carità sono case calde e accoglienti, ma a lungo andare soffocano.
Io amo la Calabria, amo casa mia, ma ho bisogno di conoscere, ho bisogno di sentirmi libera di poter svoltare qualsiasi angolo e scoprire cose nuove, di poter andare sempre, come e dove voglio.

Il Sud Italia piange la ritrosia alla conoscenza, piange l’insufficienza di servizi pubblici essenziali, perché tali reputo i mezzi di trasporto, e i giovani, che sono ancora fortunatamente la speranza di questo paese, devono essere messi in grado di volare.
Perché i piedi li abbiamo tutti alla fine del nostro corpo, e sono (in troppi casi) inarrestabili: necessitano di spingere sull’acceleratore.
L’autostrada, però, non è sicura, è stretta, è piena di men at workogni 50km, è pericolosa perché affollata. All’estero, tra l’altro, il famoso estero di cui in premessa, vi è una bassissima percentuale d’uso delle automobili.
La gente va a lavoro in metro, in bus, in bici. Trasliamo, ora, queste tre parole in Italia, e ancor di più al meridione: metro, bus, bici.

Perfetto, adesso fermiamoci e ridiamo insieme.

Finito di ridere? Esatto, la pensiamo allo stesso modo. Metro? Inesistenti. Bus? Pochi, sporchi, rallentati. Biciclette? Rubate (laddove vi è una pista ciclabile, perché in alcune zone manca anche quella).
Ci rimangono i piedi, amici miei, e per fortuna in quelli c’è ancora tanta voglia di andare.
Le soluzioni le troviamo, purtroppo lente, dispendiose, poco sicure e studiate perfettamente al minuto, con il rischio che un secondo di ritardo faccia saltare i piani e, per i più irritabili, le bestemmie. Io sono arrabbiata, sono delusa da un paese che mi tiene in trappola e mi spinge all’evasione, nel senso più brutale del termine.
E non è giusto: viviamo in uno dei paesi più meravigliosi al mondo, siamo la culla della civiltà, abbiamo tanto da offrire e  dovremmo saper viver di turismo meglio di chiunque altro. 
Clichè anche stavolta: ebbene si, perché noi italiani siamo paradossalmente anni luce dietro ai paesi più sottosviluppati che, al contrario nostro, sfruttano al massimo quella poca attrazione che evocano nei confronti del mondo.
E noi, invece, rimaniamo con i piedi per terra, le ali legate e senza vantaggi. Soli, criticati, lontani e irraggiungibili. E vuoti: perché a lungo andare, chi trova il mondo di andar via, ascoltatemi bene, non torna più. 


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