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Il Giro d’Italia visto dal divano (con un occhio al futuro)

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I protagonisti del Giro d'Italia | ph: Pixabay

La «festa di maggio» è ancora il nostro romanzo popolare?

Le fughe, le volate, l’attesa (persino spasmodica, in questa edizione oltremodo sonnacchiosa) di un attacco o di un colpo di mano. E poi le voci e i volti del dopocorsa – assurto a vero e proprio sottogenere televisivo negli anni del Processo alla tappa di Sergio Zavoli – l’immancabile coda polemica, le annotazioni di colore: il consolidato copione del Giro d’Italia, il filo rosa che riannoda le mille contrade della nostra penisola per tre settimane all’anno, sotto il segno di un entusiasmo e di una passione che si rinnovano nelle grandi città così come nei paesi che escono dall’anonimato della carta geografica solo al passaggio di capitani e gregari di mestiere.

Non solo il più grande evento sportivo nazionale – capace di «trasformare in domenica ogni giorno della settimana», per riprendere la definizione di un suiveur d’eccezione del Giro, Indro Montanelli – ma anche un’istituzione dei pomeriggi televisivi, che ha esteso la sua presenza nei palinsesti di pari passo con l’ampliamento delle ore di diretta. Dal raduno di partenza a tarda sera, la corsa rosa rimbalza dalle periferie del video (Rai Sport) ai posti che contano del telecomando (Raidue), concedendosi anche alla nicchia di Eurosport, la destinazione consigliata a chi – tra una pausa pubblicitaria e l’altra – voglia ascoltare una voce alternativa al racconto istituzionale del servizio pubblico. Da una parte la cronaca gradevole, ancorché fedele a un registro tradizionale, di Francesco Pancani e Alessandro Petacchi, affiancati al commento dallo scrittore Fabio Genovesi; dall’altra le fughe in avanti, le (fin troppo frequenti) divagazioni e le pedalate fuori copione di Luca Gregorio e Riccardo Magrini, di quando in quando imbeccati dagli ex professionisti Wladimir Belli e Moreno Moser. I primi al seguito della corsa, i secondi da sempre abituati a commentare le immagini «via tubo» (a distanza, per intenderci). Due stili contrapposti che rispecchiano più o meno fedelmente abitudini e preferenze del pubblico: se Pancani e Petacchi si rivolgono anche a chi non segue abitualmente il ciclismo nel corso della stagione, Gregorio-Magrini giocano la carta dell’audacia, come se la gara – spesso e volentieri poco coinvolgente – fosse il pretesto per parlare d’altro, fluttuando tra aneddotica e goliardia (a dire il vero piuttosto fiacca negli ultimi tempi, ma curiosamente apprezzata dalla platea di Eurosport, meno numerosa ma complessivamente più giovane di quella che segue le dirette RAI).

Che sia un effetto collaterale dello spettacolo che latita fino al proverbiale triangolo rosso o della trasmissione integrale delle tappe poco importa: per sua stessa natura, il ciclismo in tv si presta alla digressione, alla nota esplicativa, alla cartolina illustrata. Da questo punto di vista, la RAI ha compiuto qualche timido sforzo per elevare il livello delle sue telecronache, affidando al bravo Ettore Giovannelli e ad Umberto Martini il compito di raccontare l’Italia che gravita intorno alla «festa di maggio», riconoscendole molta più considerazione di quanto non accadesse in passato. Tuttavia, allo spettatore da casa non sfuggirà che il racconto della penisola attraversata dalla carovana ha molto, troppo in comune con le campagne di comunicazione delle aziende di soggiorno. Per carità: non c’è niente di male a mettere in risalto il patrimonio artistico, culturale e gastronomico di un paese, di una città di provincia o di una vallata, se non altro perché il Giro d’Italia è anche un formidabile veicolo di promozione turistica. Tuttavia, a volte si ha la sensazione che manchino le parole giuste per narrare la storia e le storie del nostro paese: per ragioni di mera opportunità, gli agganci con l’attualità sono pressoché inesistenti. Il passato è un ospite spesso indesiderato, a meno che non si fonda con la leggenda. Per non parlare dell’inspiegabile carenza di didascalie e grafiche, senza le quali è pressoché impossibile identificare i luoghi attraversati dalla corsa.

Questioni all’apparenza marginali, ma in realtà decisive per comprendere perché il Giro – a differenza del Tour de France, oltretutto avvantaggiato da una collocazione decisamente più favorevole in calendario – non abbia ancora trovato un’adeguata collocazione nell’immaginario dei nostri connazionali dopo gli anni bui degli scandali doping. Viene da pensare che il sapore antico, talora persino anacronistico, di un grande Giro a tappe non sia adatto a un’epoca in cui tutto si consuma in fretta e con crescente voracità. Tuttavia, la corsa rosa non ha ancora smesso di infiammare i cuori di chi – patito o meno delle due ruote – attende il passaggio dei corridori dal balcone di casa oppure a bordo strada. Perché questa magia non svanisca, però, serve un netto cambio di paradigma: non di solo agonismo può campare una corsa in bicicletta.

Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni

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