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Fast fashion: quando paghi poco, cosa paghi davvero?

Al giorno d’oggi essere costantemente connessi e aggiornati, seguendo tendenze che cambiano e si diffondono con assoluta celerità, grazie soprattutto all’utilizzo dei social media, è ormai considerato normalità.
Dunque, dal momento che la nostra cultura apprezza e promuove la velocità, quest’ultima viene considerata un valore, senza però considerarne gli effetti negativi, soprattutto quelli a lento rilascio.
È proprio questo il contesto in cui va collocata l’affermazione della fast fashion, espressione coniata dal New York Times: catene di moda di capi molto economici, ma allo stesso tempo glamour e sempre innovativi.
Il suo principale obiettivo consiste nel produrre un capo nel modo più veloce possibile, passando da ciò che sfila sulle passerelle delle grandi maison della moda, le quali da sempre dettano nuove tendenze stagione dopo stagione, alla produzione in tempi davvero brevissimi: settimana dopo
settimana.

La fast fashion nasce per soddisfare uno dei desideri più comuni di noi consumatori: acquistare un capo che apparentemente è simile a uno di alta moda, ma a una fascia di prezzo accessibile davvero a tutti.
È grazie a questa politica economica che abbiamo un armadio sempre più grande, con una serie di capi che il più delle volte indossiamo e sfoggiamo anche solo un paio di volte, o comunque per un breve periodo, dal momento che si riesce molto presto a dimenticarli sul fondo dell’armadio, o
ancora più facilmente, a buttarli senza troppi pentimenti dato il basso costo.
Tali dinamiche sono possibili grazie ai brand delle catene low-cost quali H&M, Bershka, Primark, Zara e altri ancora che cercano di dare una risposta sempre più rapida alle esigenze dei consumatori: tanti capi quante sono le tendenze e i generi.
Dal momento che negli ultimi vent’anni spendere poco per vestirsi bene e, soprattutto, in modo sempre diverso è diventata la norma per gran parte delle persone, è senza alcun dubbio questa la ragione del successo di tale politica!
La fast fashion ha dunque comportato un aumento della produzione tessile, una notevole diminuzione dei prezzi e, infine, una minore consapevolezza da parte dei consumatori. Ecco perché si rende necessario invece chiedersi: com’è possibile acquistare un capo a prezzi così ridotti? Cosa si nasconde dall’altro lato della medaglia? Siamo sicuri che quelle pelliccette “eco”
siano davvero tali?
Purtroppo, la verità è che i ritmi di produzione di queste aziende sono sostenibili solamente producendo in paesi dove il costo del lavoro e della manodopera è basso e, di conseguenza, dov’è facile che i lavoratori vengano sfruttati e sottopagati.

Ma non è ancora finita qui. Oltre a non avere rispetto per le persone che producono gli abiti, queste aziende non si preoccupano di certo dell’impatto sull’ambiente, dal momento che la produzione di tali capi non prevede attenzione alcuna per i tessuti scelti, se soli si considera che il materiale maggiormente utilizzato è il poliestere e altre fibre sintetiche che richiedono grandi quantità di petrolio grezzo, dato che sono creati artificialmente in modo altamente inquinante.
Stessa considerazione vale per le tecniche, soprattutto nella fase di colorazione o sbiancamento dei tessuti, infatti questa parte del processo di produzione rilascia un’ingente mole di materiale tossico nelle acque limitrofe agli stabilimenti: non è solo la natura a rimetterci in questo caso, ma anche le popolazioni che abitano vicino a quei fiumi e a quegli scarichi, che utilizzando quell’acqua per agricoltura e per altre esigenze quotidiane mettono in serio pericolo la loro salute!
Considerevole è anche l’utilizzo intensivo di pesticidi, materie tossiche o sostanze chimiche aggressive che si rivelano senza dubbio letali per i lavoratori, alle quali sono perennemente esposti.

L’espansione di questo fenomeno va dunque di pari passo con un incremento dell’impatto ambientale che questo stesso business genera nelle sue varie fasi di produzione e non solo. Da non dimenticare ci sono infatti due tipi rifiuti: la merce invenduta e quella indesiderata. La prima
deriva dal fatto che una produzione tale comporta il rischio che non tutto venga venduto e la seconda deriva dal fatto che un capo, anche se venduto, possa essere gettato via facilmente subito dopo essere stato acquistato. La poca attenzione a questi “dettagli” rende l’industria della moda la
seconda industria più inquinante, subito dopo il petrolio.
Senza alcun dubbio la responsabilità di queste aziende in termini di diritti umani e ambientali è grande, ma anche continuare ad acquistare da queste in modo sconsiderato significa concorrere alla crescita del problema. Bisognerebbe infatti diminuire la velocità della creazione, il consumo e
lo smaltimento, riflettendo di più sui propri acquisti, valutando i metodi di lavorazione, considerando la qualità e la provenienza dei materiali, assicurarsi inoltre che i diritti dei lavoratori tessili siano rispettati: in questo modo si parlerebbe di “slow fashion”.
Si dovrebbe dunque tentare di rallentare non tanto i produttori quanto gli stessi consumatori, poiché da sempre sono questi ultimi a dettare le leggi del mercato. Anche perché il semplice chiederci: “Chi ha prodotto i miei vestiti? Come? Dove?” può determinare un nuovo modo di
scegliere ciò che acquistiamo, e magari può incoraggiare anche le aziende a produrre in maniera più responsabile.
È necessaria, soprattutto per i giovani, considerati i maggiori consumatori, la consapevolezza riguardo le abitudini e l’impatto che i nostri acquisti hanno sulla società e sull’ambiente.
Solo quando il consumatore finale esigerà trasparenza e comportamenti etici dalle aziende da cui acquista si potrà avere un cambiamento profondo, dettato dalla domanda del mercato per prodotti sempre più sostenibili.
Ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e ogni momento è buono per iniziare a farlo.

Già pubblicato su Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei Ventenni 16/12/2019

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