La sovranità popolare.
Quando si analizza banalmente il concetto di democrazia, è naturale pensare ad un sistema di governo della cosa pubblica basato sulla sovranità popolare. D’altronde anche l’etimologia del termine democrazia (dal greco: democratia composto di demos popolo e cratos potere) rafforza l’accezione comune del termine.
Ma quand’è che uno Stato o un sistema di governo possono definirsi compiutamente democratici?
Quali sono gli elementi strutturali e funzionali che ci consentono di assegnare carattere democratico al sistema di un paese. E ancora, sulla base di questi: è possibile determinare il grado di democraticità di uno Stato?
Non è questa la sede più opportuna per sviscerare il tema qui introdotto, che forse richiederebbe ben più di una monografia per essere affrontato nella sua completezza, tuttavia ci concentreremo su una tematica che senza ombra di dubbio contribuisce a fornire indicazioni importanti circa la “qualità” della democraticità di un sistema di governo.
Molte volte ci siamo sentiti dire che il nostro voto “fa la differenza”, ma, ad esser sinceri, ci siamo chiesti esattamente in che modo ciò avvenga? Come contribuisce il nostro voto a dare corpo a quella formula – “potere del popolo”- in cui è racchiuso il significato ancestrale della parola “democrazia”?
Per rispondere a queste domande è necessario compiere un esame generale dei Sistemi Elettorali, ossia dell’insieme delle regole che disciplinano le modalità attraverso cui, sulla base dei voti espressi dagli elettori durante le elezioni, vengono distribuiti i seggi all’interno degli organi rappresentativi delle istituzioni politiche nazionali, europee, regionali e locali.
Come funzionano i sistemi elettorali?
Cominciamo con una premessa. L’elettorato viene suddiviso su base territoriale in una serie di collegi elettorali che, a seconda del sistema prescelto, possono essere uninominali (ciascun collegio elegge un solo un seggio) o plurinominali (ogni collegio elegge un numero predeterminato di seggi superiore a uno). La distinzione di fondo tra le formule che regolano le modalità di distribuzione dei seggi tra i vari candidati vede tradizionalmente la contrapposizione tra sistemi/formule maggioritarie e sistemi/formule proporzionali. In linea generale, le prime attribuiscono i seggi ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza dei voti, mentre le seconde attribuiscono i seggi in modo proporzionale al numero di voti ottenuto dalle varie liste. Solitamente alle formule elettorali maggioritarie si abbina il sistema dei collegi uninominali, per cui il territorio verrà suddiviso in ragione del numero di seggi da assegnare, mentre, al contrario, le formule proporzionali vengono praticate in collegi plurinominali, per cui ad ogni collegio viene assegnato un certo numero di seggi da eleggere.
Per farla breve, mettendo da parte le nozioni tecniche da giovani studenti di giurisprudenza, potremmo semplificare dicendo che: i sistemi maggioritari, in tutte le loro declinazioni, hanno come proprio punto di riferimento l’esigenza di governabilità: chi prende la maggioranza dei voti ha la maggioranza dei seggi; mentre invece i sistemi proporzionali premono maggiormente sull’esigenza della rappresentatività: la distribuzione dei seggi verrà effettuata in misura proporzionale ai voti che ciascuna lista ha conquistato.
Il sistema migliore
Non esiste una formula in sé superiore ad un’altra. I sistemi elettorali, infatti, non si valutano in base a dei criteri assoluti ma in base alla loro efficacia, ossia alla loro adattabilità in base al sistema politico e istituzionale di ciascun paese. In breve: non esistono sistemi migliori di altri, esistono sistemi solo più adatti/adattabili di altri. Proprio per questo le due formule esaminate sopra si arricchiscono di una numerosa serie di varianti al loro interno, oltre che di correttivi specifici (clausole di sbarramento, doppi turni, premi di maggioranza), fino ad approdare a formule miste, che ricomprendono alcuni aspetti maggioritari ed altri proporzionali.
Scegliere il sistema più adatto in base ad una serie di criteri oggettivi che tengano compiutamente conto del sistema politico di riferimento consente di migliorare il grado di democraticità del paese, oltre che soddisfare nel contempo le contrapposte ed entrambe fondamentali esigenze di rappresentatività e governabilità. E così, ad esempio, sistemi politici fortemente bipartitici/bipolari, come quello statunitense, privilegeranno formule di tipo maggioritario. Mentre, di converso, sistemi a cosiddetto multipartitismo estremo tendenzialmente privilegeranno sistemi di tipo proporzionale.
Qual è il sistema elettorale adottato in Italia?
In Italia il sistema vigente è quello delineato nel cosiddetto Rosatellum, la legge che porta il nome di Ettore Rosato, deputato del Partito Democratico, approvata in via definitiva al Senato il 26 ottobre 2017 con il voto favorevole di Partito Democratico, Forza Italia, Lega Nord, Alternativa Popolare, Alleanza Liberalpopolare-Autonomie e altre formazioni minori.
Il sistema cui dà vita il Rosatellum è di tipo misto prevedendo per entrambe le camere che:
- il 37% dei seggi, circa 1/3 del totale (232 alla Camera e 116 al Senato) è assegnato con un sistema maggioritario a turno unico in altrettanti collegi uninominali: in ciascun collegio è eletto il candidato più votato.
- il 61% dei seggi, pressoché i 2/3 del totale, (386 alla Camera e 193 al Sento) è ripartito proporzionalmente tra le coalizioni e le singole liste. La ripartizione dei seggi tra Camera e Senato non coincide perché la circoscrizione è organizzata a livello nazionale per la Camera e a livello regionale per il Senato; a tale scopo sono istituiti collegi plurinominali nei quali le liste si presentano sotto forma di liste bloccate di candidati senza voto di preferenza;
- il 2% dei seggi (12 deputati e 6 senatori) è destinato al voto degli italiani residenti all’estero e viene assegnato con un sistema proporzionale con voto di preferenza.
Volendo trarre qualche conclusione.
Una valutazione del Rosatellum all’indomani del suo primo utilizzo – le elezioni politiche del 4 Marzo 2018- non può dare esito positivo, o almeno non quello che taluno si aspettava.
Come molti costituzionalisti e tanti altri addetti ai lavori avevano preannunciato, infatti, la legge elettorale ha finito per favorire governi di larghe (e labili n.d.r.) intese fondate su timide e sparute maggioranze, spesso portatrici di istanze politiche opposte e costrette a difficili compromessi (addirittura definiti contratti, per imprimere maggiore vincolatività all’accordo tra versioni politiche nettamente diffidenti l’una dell’altra). Il rischio insito nella legge elettorale si è, infatti, concretizzato: a meno di due anni dalle elezioni, in un sistema frammentariamente tripolare come quello italiano, nel registro della Repubblica sono stati iscritti già due Governi.
L’oramai annosa ricerca di un sistema elettorale adeguato ad una situazione politica sempre più in evoluzione, finisce ancora oggi per allontanarci dal ritrovare quella necessaria stabilità istituzionale che le democrazie stesse pretendono per poter soddisfare le richieste della comunità sociale e gli impegni istituzionali interni ed esterni che tengono in piedi un paese come il nostro, che ancora oggi aspira ad essere tra i protagonisti della scena politica globale e che di quella stabilità ha sempre più impellente bisogno.