Dietro le chat con nudi e dati sensibili di donne si cela un mostro con nome e cognome: cultura dello stupro
Cultura dello stupro è il termine utilizzato dagli studi di genere e dalla letteratura femminista e postmoderna per definire una società e- appunto- un tipo di cultura in cui vengono minimizzati e “naturalizzati” episodi di violenza sessuale e atti di molestia, spesso tollerando o riconducendo questa condotta- per quanto illegale- alla goliardia e che ricorre in quei gruppi sociali in cui queste condotte di sopraffazione vengono tollerate.
Da quando il revenge porn è diventato perseguibile, sono molti i casi, dapprima taciuti, che sono stati portati allo scoperto. Quando è stata diffusa la notizia dell’esistenza di più chat su Telegram in cui i membri, protetti dall’anonimato, non solo diffondevano sistematicamente foto e video di ex fidanzate, amiche, colleghe e parenti col fine di umiliarle e farle insultare dal resto del gruppo ma- come riporta l’inchiesta di Wired (che trovate qui)- anche i dati personali e i profili social delle ragazze, le reazioni sono state decisamente inaspettate.
L’esistenza di questi gruppi è, infatti, tristemente nota, così come è evidente la capillarità della loro diffusione; con ogni implemento tecnologico le attività dei loro partecipanti aumentano e cambiano forma, in modo da far perdere sistematicamente le loro tracce ed evitare di essere perseguibili.
Ma non è tutto merito delle chat la loro proliferazione. Infatti, scatta un curioso meccanismo quando si parla di queste aggregazioni di uomini (per la maggioranza, almeno) che arrivano addirittura a condividere materiale pedopornografico e dati sensibili col fine di far perseguitare la “vittima” designata da degli sconosciuti. Nel momento in cui si analizza il fenomeno, infatti, in un modo o nell’altro il fuoco si sposta sulla vittima e le sue presunte colpe, perché la vittima finisce sempre per essere colpevole in qualche misura.
Ed è così anche per chi si professa contro queste pratiche o addirittura ripudia chi le attua, reagendo con indignazione alle testimonianze di vittime e sopravvissute che raccontano la loro esperienza con gli uomini, al grido di “Not all men” (tradotto: “Non tutti gli uomini”) perché è sbagliato generalizzare.
Invece, in questi casi, generalizzare ci aiuta a mettere a fuoco il problema reale e, di conseguenza, a comprendere come risolverlo. È vero che non tutti gli uomini fanno parte di quel gruppo specifico, ma che sia arrivato a contenere numericamente cinquanta mila componenti non può generare indifferenza. Normalmente simili contenuti sarebbero riconducibili al dark web, ma queste chat sono mezzi ordinari e al loro interno si trovano uomini altrettanto ordinari, che “esistano da sempre” non può essere la norma.
In una cultura in cui i privilegi sono chiaramente sbilanciati, la responsabilità va distribuita tra tutti, perché, se si è detentori di un privilegio, ciò che bisogna fare non è mostrare contrarietà a parole o professare suddetta indifferenza, ma essere attivamente contro quelle azioni che nel tempo hanno legittimato questi atteggiamenti di sopraffazione e atti persecutori verso- prevalentemente- soggetti di sesso femminile.
Questo genere di azioni, infatti, prolifera grazie all’apatia e a un tacito senso di solidarietà che, anche senza esplicita conferma, legittima questi atti. Accettare di entrare in questi gruppi, anche se non si interagisce, ridere per educazione a meme che coinvolgono fotomontaggi sessualmente espliciti di persone ignare e insinuare- quando si parla della questione- che la colpa sia, anche in parte, attribuibile alle ragazze che condividono e pubblicano foto e video sui social network, sposta il focus dal problema principale e crea un’invisibile rete di protezione attorno a questi- non sono esagerata nel definire- criminali.
Svela, inoltre, una completa indifferenza o ignoranza sul più basilare concetto di consenso. Le donne che condividono foto e video privati hanno dato il consenso alla pubblicazione solo in quegli spazi, non hanno dato il consenso affinché quell’immagine venisse diffusa in altri canali e diventasse oggetto di un vero e proprio stupro virtuale.
Perché di questo si tratta, è una cultura fatta di lotta di potere, di ricerca spasmodica di modi con cui sopraffare, umiliare e indebolire gli altri, svalutarli.
Il femminismo non riguarda solo le donne, è vero, ma le problematiche vengono sempre ricondotte al modo in cui viene trattata la loro immagine e per debellare la cultura dello stupro, bisogna iniziare da lì.
L’immagine della donna è il primo specchio di ciò che siamo: è un’immagine che da sempre è a uso e consumo degli uomini, un oggetto interamente controllato da loro, che esisteva e meritava di esistere solo se indirizzato al loro compiacimento. E questo è il motivo per cui quella stessa immagine, per molti correnti femministe, è stata oggetto di riappropriazione: l’immagine non deve compiacere lui, dare potere a lui, ma a me stessa.
Quell’immagine viene ancora sfruttata per indebolire, a volte proprio “punire” la stessa audacia di volersi riappropriare di quel potere e, nel farlo, si fa gruppo, si crea un branco, perché solo in quel modo possono imporsi ed esaltare il proprio ego machista. E nel branco sono in tanti, cinquanta mila. Molti però- giurerebbero- sono lì per caso, quelle frasi non le direbbero mai, quelle foto non le manderebbero mai.
Allora mi rivolgo a voi, che quelle foto non le mandereste mai, vi ritenete completamente innocenti? Pensateci.
Pensateci, quando nelle chat di calcetto ridete di una battuta sullo stupro.
Quando un amico vi manda una foto intima che “sta girando” e voi non gli spiegate che non va bene, che è sbagliato.
Quando vi invitano in gruppi di Telegram il cui stesso nome invita a una violenza sessuale e voi non ne uscite e non denunciate perché “Poi si offendono”, “Poi mi escludono”.
Queste azioni vivono e sopravvivono grazie al branco e, anche se non siete voi a fare violenza, siete rimasti lì inermi a guardare e questo vi rende complici.
La colpa è anche vostra.