Dopo la partenza: l’incombente “catastrofe umanitaria” dell’Afghanistan

Mentre la minaccia di una crisi umanitaria cresce, il mondo non può voltare le spalle ai bisogni afgani, indipendentemente dai nuovi leader di Kabul.

[Questo articolo è la versione tradotta in italiano di “After the Departure: Afghanistan’s looming ‘umanitaria catastrofe‘”]

Vent’anni fa, mia madre ha viaggiato attraverso l’Afghanistan come reporter per dare notizia della siccità mortale e della vita sotto il regime talebano. Sull’Irish Times, dei campi vuoti, privi di raccolti, che vedeva al suo passaggio, scrisse: “Attraverso le vaste pianure dell’Afghanistan settentrionale, si allineano sulla strada figure – ragazzi e vecchi – che alzano entrambe le mani alla bocca in un ossessionante rituale che implora ogni auto che passa“. Oggi, nel 2021, gli afghani affrontano un destino simile, dato che una combinazione di grave siccità e spostamento interno ha messo una forte pressione sulle risorse in diminuzione.

La foto di mia madre dell’inizio del 2001, originariamente con la didascalia: “Uomini che vanno al mercato nella provincia di Faryab, portando con sé il bestiame che sono costretti a vendere. Quando finiranno la merce vendibile, non avranno più modo di provvedere al cibo per le loro famiglie”.

A poco più di tre settimane dalla caduta di Kabul in mano ai talebani, il mondo sta ancora cercando di capire come il governo e l’esercito siano crollati così rapidamente. Non c’è voluto molto perché iniziasse un gioco di colpe tra i leader occidentali, mentre i politici cercavano di prendere le distanze da una serie di fallimenti nel periodo precedente al ritiro delle truppe straniere. Dopo vent’anni di conflitto dall’11 settembre, tuttavia, i fallimenti dell’intervento occidentale in Afghanistan non possono essere confinati solo all’ultimo anno.

Mentre le implicazioni geopolitiche del ritorno al potere dei talebani continuano a preoccupare sia i leader che gli analisti, per i comuni afghani, lasciati indietro nel “cimitero degli imperi“, la questione più urgente è l’incombente emergenza umanitaria.

L’Afghanistan prima dell’11 settembre

Vent’anni fa, all’età di quasi sei anni, vivevo con la mia famiglia a Islamabad, in Pakistan. Dopo ciò che avvenne l’11 settembre, gli stranieri furono esortati dalle loro ambasciate ad evacuare il paese e, così, mia madre portò me e i miei due fratelli maggiori a Nuova Delhi, dove siamo rimasti per quattro mesi, mentre mio padre rimase a lavorare come giornalista in Pakistan.

All’inizio di quell’anno, mia madre si era recata da sola in Afghanistan per coprire le notizie sulla carestia nella parte settentrionale del paese. Essendo una donna occidentale, era per lo più protetta dalla spietatezza dei talebani. Eppure il suo breve periodo all’interno del paese le ha permesso di essere testimone della vita sotto il loro dominio.

La prima volta che era stata in Afghanistan era stato anni prima, quando i sovietici stavano lasciando il paese e i mujaheddin erano ancora impegnati nella battaglia contro di loro. All’inizio del 2001 arrivò a Kabul con un volo della Croce Rossa, pensando ingenuamente che avrebbe avuto il permesso di viaggiare come giornalista.

I talebani, tuttavia, erano profondamente sospettosi dei giornalisti occidentali. Mia madre fu portata in una delle loro basi centrali dove fuinterrogata sui motivi della sua presenza. Seduta in una stanza con i talebani a piedi nudi e le loro armi puntate contro le pareti, li convinse che stava solo raccontando la carestia. Solo dopo averli rassicurati sul fatto che il suo reportage non avrebbe avuto un taglio politico, i talebani cedettero con riluttanza e le permisero di viaggiare.

Mia madre viaggiò attraverso il paese fino a Maymana, nel nord-ovest, accompagnata da un autista e da un traduttore scelto dai talebani. Nonostante le sue riserve iniziali sul traduttore, questo durante il viaggio le confidò che stava educando segretamente sua figlia a casa.
Mentre guidavano, ascoltavano musica e ogni volta che incontravano un posto di blocco talebano, nascondevano frettolosamente le cassette. Nei suoi articoli, mia madre, infatti, ha descritto le “masse aggrovigliate di audiocassette nere confiscate agli automobilisti sorpresi a suonare musica occidentale nelle loro auto”, appese in alto sopra ogni posto di blocco, come un avvertimento per coloro che si opponevano al loro divieto.

Quando ho chiesto a mia madre se si fosse sentita spaventata in qualche momento, mi ha descritto la sua prima notte a Mazar-i-Sharif; le era stato rifiutato il permesso di alloggiare nella pensione delle Nazioni Unite e le era stato detto di alloggiare in un hotel situato di fronte al quartier generale dei talebani. Conobbe altri giornalisti e il personale dell’ONU nella loro base, ma dopo poche ore, all’ora del coprifuoco, dovette raggiungere l’hotel.
L’edificio era buio e l’elettricità spenta. Un ragazzo la condusse su per diverse rampe di scale e su ogni pianerottolo passarono davanti a gruppi di uomini barbuti seduti a chiacchierare. In cima all’edificio il ragazzo le mostrò la sua stanza senza luce. Mi ha raccontato che è stato solo allora che ha avuto dei dubbi, mentre sedeva da sola in un hotel buio e squallido, circondata da uomini barbuti ad ogni piano, di fronte al quartier generale dei talebani.

Quando lasciò Kabul, scappando dalla città mentre scendeva una tempesta di sabbia, il suo sollievo fu immenso. Anni dopo, mentre mi raccontava tutto questo, ridendo della sua imprudenza, l’ascoltavo stupita. Non potevo non notare le somiglianze tra l’Afghanistan che aveva visitato e quello attuale.

Catastrofe umanitaria

La carestia oggetto dell’inchiesta di mia madre fu causata da una terribile siccità dovuta all’assenza di pioggia per tre anni. Migliaia di persone furono costrette a fuggire dalle loro case, aggiungendosi all’enorme numero di sfollati interni che erano già fuggiti a causa del conflitto. La malnutrizione acuta nei bambini sotto i cinque anni stava diventando un problema serio.

Oggi, l’Afghanistan sta affrontando una “catastrofe umanitaria”, come ha avvertito il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Quasi la metà della popolazione (circa 18 milioni di persone) ha bisogno di aiuti umanitari, e più della metà dei bambini sotto i 5 anni dovrà affrontare la malnutrizione acuta nel prossimo anno. Le cause dirette, almeno, sono molto simili a quelle del 2001: siccità, mancanza di raccolti e spostamenti interni.

Ora che il ritiro degli Stati Uniti è completo e le evacuazioni sia di stranieri che di afghani si sono fermate, l’attenzione del mondo dovrebbe spostarsi sui bisogni umanitari di coloro che rimangono nel paese. Probabilmente, dopo due decenni di intervento militare da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, il paese dovrebbe essere lasciato solo. Le potenze occidentali, tuttavia, hanno lasciato dietro di sé molti più problemi rispetto a quelli che hanno risolto. L’intervento, sotto forma di aiuti, deve continuare.

Rifugiati afgani e la loro madre in un campo nel nord del Pakistan, fotografati nel febbraio 2001

Allora e oggi

Le somiglianze tra l’Afghanistan che mia madre ha visitato e quello di oggi indicano le tristi realtà vissute quotidianamente dagli afghani, sia allora che oggi. Eppure, negli anni successivi all’11 settembre, il paese è effettivamente cambiato; l’economia è cresciuta, le infrastrutture sono state sviluppate e ci sono stati significativi guadagni per i diritti delle donne e delle ragazze. Mentre nel 2003 solo il 6% delle ragazze frequentava la scuola secondaria, nel 2017 questa cifra era balzata al 39%. Tuttavia, la crescita economica è rallentata negli ultimi anni e più della metà della popolazione vive ora sotto la soglia di povertà nazionale.

La grande domanda nelle ultime settimane è stata se i talebani sono cambiati in qualche modo fondamentale. I loro tentativi di dimostrare che sono cambiati e modernizzati dimostrano che lo sono; la loro comprensione dei media e delle corrette pubbliche relazioni dimostra una marcata differenza tra i Talebani degli anni ’90 e gli attuali leader.

Tuttavia, i rapporti che stanno lentamente emergendo dal paese (dove molti giornalisti sono diventati clandestini) sembrano mostrare che il loro spettacolo mediatico è proprio questo: uno spettacolo destinato a raccogliere l’attenzione e la buona volontà dei potenziali donatori. Negli ultimi mesi, nelle zone controllate dai talebani, le violazioni dei diritti umani – di giornalisti, attivisti, donne – sono aumentate e, dal loro arrivo a Kabul, stanno aumentando le prove di ulteriori violazioni.

Andare oltre l’11 settembre

Molti sperano che un paese in cui due terzi della popolazione ha meno di 25 anni non permetta una regressione all’Afghanistan degli anni ’90. Tuttavia, se permettiamo all’Occidente di andarsene senza uno sguardo indietro, allora i pochi passi avanti che sono stati fatti dal 2001 andranno persi. Per ragioni sia egoistiche che umanitarie, dobbiamo continuare a sostenere l’Afghanistan con gli aiuti critici necessari nei prossimi mesi. Non farlo sarebbe moralmente sbagliato e senza dubbio scatenerebbe ulteriori preoccupazioni per la sicurezza dell’Occidente, mentre l’esodo dei rifugiati afgani cresce e la situazione nel paese peggiora.

Quando mia madre ha viaggiato attraverso il paese nel 2001, nonostante il sospetto dei talebani, il suo obiettivo era quello di raccontare la situazione dei comuni cittadini afgani. Nel 2021, mentre la situazione geopolitica può rimanere fragile, i media globali devono mantenere la loro attenzione sulla crisi umanitaria che si sta svolgendo. Il ritiro degli Stati Uniti può essere finito, ma la “catastrofe” è solo all’inizio; ora non è il momento di voltare le spalle quanto, invece, quello di offrire gli aiuti che possiamo.

Mentre l’Afghanistan e il mondo voltano pagina, possiamo ancora sperare che i prossimi vent’anni portino qualche cambiamento positivo a un paese che ha visto infinite difficoltà. Nei prossimi mesi, scene di ragazzi e uomini affamati che chiedono disperatamente cibo, come quella a cui ha assistito mia madre, non devono ripetersi. Resta da vedere come i talebani governeranno, ma è fondamentale che il loro ritorno a Kabul non significhi un ritorno a un’era in cui i bisogni di milioni di afghani sono dimenticati dal mondo esterno.