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Divari generazionali: la ricchezza degli over 65, la povertà degli under 30

La generazione dei nuovi trentenni è in trepidante attesa di stipendi meritevoli di essere definiti tali. Cifre non esorbitanti, ma che consentano di avviare una famiglia, pagare i mutui e concedersi tempo libero. Fatti confermati dalle stime di Banca d’Italia, nel corso dell’indagine sui bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2020: è netto il divario tra la ricchezza degli over 65 e la povertà degli under 30.

L’intervista ha coinvolto 6.000 nuclei familiari. Di questi, sono state monitorate le condizioni economiche tra il 2019 e 2020, tenendo presente anche le conseguenze dovute alla pandemia. Una quota rilevante degli intervistati ha dichiarato che almeno un familiare ha subito una temporanea riduzione o interruzione delle entrate da lavoro, incremento che si è concentrato soprattutto tra le famiglie il cui maggiore percettore di reddito ha meno di 35 anni. Per fare fronte al calo del reddito le famiglie hanno ridotto alcune spese e liquidato attività finanziarie possedute. Inoltre, le stime sulla ricchezza netta media hanno evidenziato un incremento della disuguaglianza dovuto all’effetto delle riduzioni dei prezzi delle abitazioni che, per i nuclei familiari di ceto medio, rappresentano la componente principale del patrimonio familiare. La distribuzione diseguale della ricchezza ha fatto risaltare una separazione che riguarda gruppi sociodemografici e, in particolare, la ricchezza delle famiglie più giovani, per le quali si stima un maggiore tasso di povertà.

È aumentata drasticamente la percentuale di giovani, tra i 18 e i 34 anni, che vivono in condizioni di povertà assoluta, passando dal 3,1% del 2005 all’11%, il che significa ben 1 milione di persone. L’anello debole, evidenziato nel Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia da Caritas, sono i giovani, spesso con storie familiari di povertà: 6 persone su 10, riporta lo studio, provengono da uno stato economico di fragilità.

Una situazione che non accusa scenari positivi, anche a causa delle forme di contratto di lavoro, sempre più atipiche. Nel 2022, in Italia, il 18% dei lavoratori tra i 20 ed i 59 anni parla di contratto a tempo parziale, part-time. Tipologia di contratto, maggiormente diffusa tra i lavoratori più giovani: il 28% degli under 25. I dati fanno riferimento al report Rilevazione sulle Forze Lavoro dell’Istat e riferiscono, inoltre, che per il 7% si tratta di lavoratori mentre per il 32% di lavoratrici part-time. Nel 2022 il 49% dei lavoratori ha dichiarato di aver accettato volontariamente questa tipologia contrattuale, nonostante la ricerca fosse rivolta al full-time. Dato reale se si considera che, gli intervistati, sono soprattutto under 30 che non hanno trovato altro lavoro a tempo pieno mentre per le lavoratrici sembrerebbe essere una scelta obbligata dalla contingente necessità e priorità a prendersi cura della casa, della famiglia e dei familiari. Di fatto, solo l’1,2% degli uomini, lavoratori part-time ha dichiarato di aver volontariamente scelto il tempo parziale per impiegare la restante parte della giornata alla cura familiare.

Tutti questi dati non sorprendono affatto. Neanche nella giornata del 1 maggio, festa dei lavoratori. Ogni anno si celebra questo giorno con l’intento di ricordare l’impegno dei movimenti sindacali e delle lotte sociali ed economiche portate avanti dai lavoratori. Eppure, in Italia continuano ad evidenziarsi condizioni inconsuete, anomale inerenti ai lavoratori e alle lavoratrici. Non a caso, tra i paesi OCSE, lo stato italiano si classifica al ventunesimo posto per il lavoro non retribuito, per intenderci la cura di sé e dei cari, onere che spesso spetta alle donne.

Si viaggia su binari paralleli, per un rettilineo che è quello dei diritti per ogni lavoratore e lavoratrice, in cui i problemi sono sempre più complessi e le uniche soluzioni disponibili sembrerebbero essere quelle di ricordare ai giovani di essere grati ad avere “un posticino”, magari sottopagato e con orari inverosimili. Di ringraziare per aver ottenuto il mutuo a soli 30 anni, che rappresenterà il peso sulla coscienza per tutta la vita. Di non preoccuparsi di non aver messo su famiglia, perché l’indipendenza è roba sacra. Di smetterla di paragonare le loro vite a quelle dei propri genitori – 28 anni, casa senza mutuo, lavoro retribuito, primo figlio e tempo da trascorrere insieme – perché quella era un’altra generazione, quelli erano altri tempi.


Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei ventenni

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