Quando si parla di violenza sessuale, nel bene o nel male l’attenzione ricade sempre sui vestiti. Sono la domanda, la sottile allusione, la curiosità, quasi senza volerlo sono il nostro primo pensiero. Se bisogna passare per strade pericolose, ci chiediamo se indossiamo capi appropriati per scongiurare attenzioni indesiderate, se subiamo un’aggressione sono il campo di battaglia da cui si può intuire se hai lottato o meno, se “te la sei cercata” o meno.
Ci hanno insegnato che bisogna essere appropriati e che con i vestiti comunichiamo, per quanto sottilmente, le nostre intenzioni. Ci abbiamo creduto e ne abbiamo fatto una colpa, ma non è così.
E la narrazione sta cambiando.
Da tempo i vestiti, da imputati e colpevoli, sono diventati la bandiera contro la colpevolizzazione delle vittime di violenza, restituendo a entrambi l’innocenza originaria e l’estraneità all’evento traumatico. Adesso sono testimonianza della forza delle vittime, del superamento del trauma e un invito a sensibilizzare sul tema.
L’abito che indossava “quel giorno” non definisce più la vittima, ma ribadisce che in “quel giorno” non ha avuto alcuna rilevanza. Non è stato lui a determinare l’evento, ma l’aver incontrato sul tuo cammino uno o più criminali.
Insomma, i vestiti ora sono protagonisti che non vogliono essere protagonisti e da questa idea- da questo sovvertimento della storia- sono nate diverse iniziative per sensibilizzare sul tema.
Nel 2013 nasce, ad esempio, il progetto di Jen Brockman – direttrice del Centro per la prevenzione e formazione sessuale di Kansas – e di Mary A. Wyandt-Hiebert, responsabile di tutte le iniziative presso il Centro di educazione contro gli stupri dell’Università dell’Arkansas. Diffuso in Italia dall’Associazione Libere Sinergie, “Com’eri vestita?” propone una fedele ricostruzione degli abiti che indossavano “le donne che non saranno più le stesse”, di cui non viene diffusa l’identità ma solo la loro storia.
Tanto basta per dipingere un quadro decisamente realistico e agghiacciante: possiamo trovare minigonne, top estivi, completi da lavoro, tute da ginnastica, ma anche stampelle, completi per bambini in età prepuberale. Anche nel peggiore degli scenari, è difficile pensare che a qualunque di queste composizioni di stoffa si possa attribuire la colpa di quanto accaduto.
La mostra è stata più volte proposta in Italia, negli anni, e nel 2019, in occasione dell’8 marzo, l’esposizione è stata inaugurata a Milano ed è proseguita fino a novembre scorso, facendo tappa in diverse regioni italiane.
Poi è subentrato quel leggero inconveniente della pandemia globale e ogni progetto è diventato virtuale. Con lo stesso spirito, in occasione del Denim Day (abbiamo parlato della storia di questa giornata qui), si è voluto sensibilizzare sul tema e stavolta i protagonisti sono state le vittime stesse.
A partire dal 29 aprile- giornata ufficiale definita dall’associazione che ha promosso l’iniziativa- giovani ragazzi in tutto il mondo hanno usato TikTok e Instagram e ogni piattaforma a loro disposizione per mostrare il vestito che indossavano “quel giorno”, condividendo la loro storia a parole, per iscritto e tramite i loro sorrisi, perché hanno voluto ribadire che quell’evento non li definisce come persona.
Ad aiutarli, è stata anche la canzone scelta: It’s Time degli Imagine Dragons, con il verso “Now don’t you understand, I’m never changing who I am” (trad. “Adesso capisci che non cambierò mai ciò che sono”), ribadisce la loro volontà di non far condizionare il resto della propria vita dal trauma ricevuto, di farsi avanti contro chi ha fatto loro del male e, con l’occasione, lanciare messaggi importanti.
Come per la mostra, anche qui i vestiti mostrati mostrano un quadro vario e sfaccettato, che ci costringe a non vedere la violenza in modo “stereotipato”: grazie all’hashtag #denimday possiamo infatti vedere video di ragazze che mostrano gonne strappate, jeans intatti, ragazzi che mostrano tute di calcio, uomini che non possono mostrare alcun abito – perché l’abuso subito non ha riguardato un vestito solo e si è protratto per anni o addirittura erano troppo piccoli per aver conservato alcunché.
Il messaggio è chiaro: bisogna sensibilizzare sulla violenza sessuale perché non riguarda solo una categoria, un vestiario, un atteggiamento, ma solo un colpevole che deve pagare per quello che ha fatto, un colpevole a cui non bisogna dare la soddisfazione di aver spezzato una vita, perché da quell’abuso si può rinascere.
Un messaggio positivo, speranzoso, che denota molto coraggio. È una forza virale che ha portato molti a ispirarsi per raccontare e raccontarsi, iniziare conversazioni importanti e creare una community globale, unita in un abbraccio di comprensione e sostegno sincero.