Riflessioni di diritto (e di pancia) sul disegno di legge contro l’omolesbobitransfobia
Premessa
La mia vicina di casa al mare è una donna colta e pungente che, da quando ero bambina, ha sempre stimolato in me riflessioni e curiosità. Ogni estate ci dedichiamo ad una più o meno lunga chiacchierata, parlando ognuna da un lato del muretto che divide le nostre case. Ci aggiorniamo sul corso delle nostre vite e dibattiamo su argomenti di attualità.
Quest’anno abbiamo avuto uno scontro acceso. Non che me ne rammarichi, anzi. Bisogna nutrirsi del disaccordo per poter dire di avere davvero un’opinione che regga. Oggetto della discussione è stato il disegno di legge Zan.
La contrapposizione netta delle nostre opinioni mi ha dato tanto da pensare nei giorni a seguire. Sono stata sopraffatta dall’angoscia, poi dalla rabbia, poi dal divertimento ed infine dalla voglia di discutere ancora. Ma l’estate è finita, il muro si riempirà di muschio e umidità e, in attesa del prossimo agosto, mi cimenterò nell’ardua impresa di trattare qui il tema dell’omotransfobia.
Quando sembrerà che io stia andando fuori dagli schemi giuridici, quasi tradendo lo spirito di questa rubrica, non biasimatemi: il diritto si alimenta del sentimento comune; l’evoluzione giuridica riflette le dinamiche socio-culturali e lo scontro ideologico di un dato momento storico. Inoltre, la legge contro l’omotransfobia rappresenterebbe un passaggio storico importante per il nostro ordinamento – sociale prima ancora che – giuridico. Come ogni passaggio storico che si rispetti, pertanto, è destinata ad essere accompagnata dal disaccordo più infuocato tra promotori e oppositori, dove sia gli uni che gli altri inevitabilmente si avvalgono anche di argomentazioni metagiuridiche. Basti guardare ai dibattiti circa aborto, divorzio, eutanasia, unioni civili e via discorrendo.
Il 17 maggio 1990 l’OMS depennava l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, così segnando un grande passo in avanti nella lunga battaglia dei diritti lgbtq+. Medesima sorte è toccata, quasi vent’anni dopo, alla transessualità, rimossa nel giugno 2018.
La comunità scientifica, dunque, ha posto le basi di un cambiamento epocale per il compimento del quale, tuttavia, occorre il lavoro coordinato anche di istituzioni e formazioni sociali.
La scienza può confutare un dogma ma non abbattere un tabù sociale. Ugualmente, il supporto di una formazione sociale (famiglia, scuola, amici) non è da solo sufficiente a legittimare una determinata realtà. La positivizzazione, il riconoscimento di diritti specifici da parte delle Stato sono passaggi obbligati affinché possa prendere vita un’evoluzione sostanziale che offra effettiva dignità giuridica alle diverse realtà di cui si compone la società odierna.
L’ordinamento italiano in materia è lacunoso, forse ai limiti del paradossale.
Nel 1982, con la legge n. 164, si riconosceva alle persone transessuali di ottenere la modifica del sesso attribuito alla nascita e riportato nei registri anagrafici.
Nel 2016 la legge Cirinnà offriva riconoscimento giuridico alle coppie formate da persone dello stesso sesso.
Nel 2020, tuttavia, ancora non c’è specifica tutela a fronte di atti di discriminazione e violenza basati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere della vittima. Tutela che, probabilmente, avrebbe dovuto essere l’antecedente logico necessario delle riforme storiche pocanzi richiamate.
L’anacronismo della lacuna si coglie anche guardando alcuni dati.
Benché i partiti più conservatori neghino che in Italia vi sia un’emergenza omotransfobica, le pagine di cronaca raccontano una verità tristemente diversa, con oltre 50 casi di aggressioni fisiche, insulti, minacce verbali, omicidi, suicidi sospetti e discriminazioni sul lavoro nei primi 6 mesi del 2020.
L’Osservatorio interforze per il contrasto dei crimini d’odio, da agosto 2019 a luglio 2020, conta 69 segnalazioni di reati discriminatori per orientamento sessuale e 8 per identità di genere[1]. Il dato è allarmante soprattutto se si tiene conto del fatto che si tratta dei soli episodi segnalati: l’esperienza insegna che, data la natura dei reati e l’impatto psicologico che essi hanno sulle vittime, i casi sono certamente di più di quelli ufficiali. Solo tra gli adolescenti, ad esempio, meno di 1 su 60 pensa di denunciare gli episodi di bullismo omofobo di cui è vittima[2].
Ma non è tutto. L’assenza di una legge di contrasto netto e deciso alla discriminazione e alla violenza omofobica è in controtendenza rispetto agli altri paesi UE e alle richieste della stessa Unione Europea.
Nel 2006, infatti, il Parlamento Europeo adottava una risoluzione con cui invitava “con insistenza gli Stati membri e la Commissione a condannare con fermezza i discorsi omofobici carichi di odio o le istigazioni all’odio e alla violenza e a garantire l’effettivo rispetto della libertà di manifestazione, garantita da tutte le convenzioni in materia di diritti umani”.
A quasi 15 anni da quando l’UE chiedeva agli Stati membri “di promuovere e adottare il principio dell’uguaglianza nelle loro società e nei loro ordinamenti giuridici”, emerge che in Italia c’è un clima sociale che non fa sentire i membri della comunità lgbtq+ al sicuro. Da una ricerca condotta nel 2019 dall’Agenzia UE per i diritti fondamentali è emerso che in Italia il 30% delle persone LGBT intervistate evita spesso o sempre di frequentare determinati luoghi per paura di aggressioni, il 23% si sente discriminato al lavoro, il 32% per cento è stato molestato nell’anno precedente e l’8% dichiara di aver subito aggressioni nei 5 anni precedenti all’indagine; di questi ultimi solo il 16% si è rivolto alla polizia per denunciare.
In questo contesto, qui molto sommariamente delineato, si inserisce il disegno di legge Zan contro l’omolesbobitransfobia e la misoginia.
Approvato il 4 novembre 2020 alla Camera e in attesa di essere discusso in Senato, il ddl si muove su due direttrici principali.
Da un lato, mira a contrastare i crimini d’odio e di violenza contro le donne e le persone della comunità lgbtq+ con la previsione di reati ad hoc e dell’aggravante della finalità di discriminazione e di misoginia. Dall’altro, promuove politiche di prevenzione e contrasto della violenza per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere, nonché per il sostegno alle vittime, incrementando di 4 milioni il Fondo pari opportunità della Presidenza del Consiglio.
Lo scontro politico relativo al ddl è incentrato principalmente sulle modifiche al Codice Penale che, dunque, vale la pena analizzare.
La proposta è quella di modificare gli artt. 604 bis e 604 ter c.p., collocati nella sezione del codice dedicata ai delitti contro l’eguaglianza, a sua volta parte del capo dei delitti contro la libertà individuale.
L’art. 604 bis c.p., nella parte che qui interessa, punisce oggi con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione o violenza per motivi razziali, etnici o religiosi nonchè chi dirige, partecipa o presta assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per i summenzionati motivi.
L’art. 604 ter c.p., inoltre, prevede la circostanza aggravante obbligatoria per qualsiasi reato qualora questo sia commesso con finalità di discriminazione razziale, etnica o religiosa.
Il disegno di legge in esame alle Camere propone di aggiungere ai moventi razziali anche quelli fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere[3].
Verrebbero così puniti specificamente e più severamente gli episodi di gay-bashing e hate speech, nonché i reati di estorsione, atti persecutori, violenza privata, danneggiamento, omicidio, istigazione al suicidio posti in essere unicamente in ragione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere della vittima.
Sono misure semplici ma estremamente necessarie perché, per citare le parole dell’on. Zan, “viviamo in un paese dove le persone, le cittadine e i cittadini non sono tutti uguali. Perché quando due persone dello stesso sesso si tengono mano nella mano in un luogo pubblico vengono insultati, se va bene oppure fatti oggetti di violenza, massacrati di botte quando va male”[4].
I detrattori del disegno di legge reputano il quadro normativo vigente di per sé già sufficiente a punire adeguatamente le condotte omofobe. Questa affermazione non sembra, tuttavia, del tutto rispondente al vero.
Infatti l’istigazione alla discriminazione o alla violenza per motivi legati all’orientamento sessuale o all’identità di genere è punibile solo qualora commessa pubblicamente, ai sensi dell’art. 414 c.p., mentre negli altri casi non è ancora oggi penalmente rilevante.
Quanto al movente omotransfobico di un reato, invece, esso attualmente può rilevare indirettamente qualora il giudice riconosca l’aggravante dei motivi abietti e futili.
Il rischio di zone franche è alto[5] e il ddl mira proprio a stigmatizzare condotte che ledono o mettono in pericolo contemporaneamente più interessi meritevoli di tutela. Una condotta di odio o di violenza nei confronti di Caio motivata dal suo orientamento sessuale o dalla sua identità sessuale ha un disvalore diverso e maggiore perché non viene posto in essere un semplice crimine ma un crimine d’odio, un crimine intrinsecamente discriminatorio, che richiede un diverso trattamento sanzionatorio.
Né a diverse conclusioni si giunge invocando la libertà di pensiero ed espressione.
Come può un insulto a Tizio e Caio che si tengono per mano essere giustificato dalla libertà di esprimere la propria opinione? Nel nostro ordinamento la libertà di espressione non è illimitata nè incondizionata. Non è in grado di schiacciare e vincere l’altrui dignità, onore, reputazione, integrità psico-fisica; diversamente non esisterebbero i reati di diffamazione, oltraggio a pubblico ufficiale, apologia del fascismo, istigazione alla discriminazione razziale.
In un ordinamento democratico e pluralista come quello italiano non esistono e non possono esistere diritti tiranni rispetto ad altri. Tutti i diritti hanno dei limiti che sono rappresentati da altri diritti. Quando, infatti, due o più diritti si incontrano (o meglio si scontrano) occorre operare un bilanciamento. A volte si può riuscire ad accontentare più o meno tutti i titolari dei diritti in gioco; altre volte non si riesce a trovare questo equilibrio e allora va fatta una scelta cercando di capire cosa prevalga nel caso concreto.
Nel nostro caso non è difficile capire quale sia l’ago – azzarderei anche la trave – della bilancia. Ma a quanto pare c’è qualcuno che continua a dubitarne.
Ai sensi dell’art. 2 Cost. “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.
L’art. 3 comma 2 Cost. enuncia il principio di uguaglianza sostanziale: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Art. 2 e 3 Cost. sono indissolubilmente connessi, entrambi espressione dell’umanesimo giuridico operato dalla nostra Costituzione: l’individuo ha un valore in sé e la Repubblica ha il compito di tutelare lo sviluppo della sua personalità.
La personalità è un concetto che ricomprende anche quello di identità che, a sua volta, è anche quella sessuale. L’identità sessuale, che non attiene al solo tema del transessualismo, è l’intima correlazione tra corpo e volontà, il modo di essere nel mondo, la relazione con se stessi e quella tra sé e gli altri “attraverso il corpo che ci appartiene e il genere al quale apparteniamo (o vogliamo appartenere).”[6] Tutto ciò può ricondursi al diritto di essere sé stessi e, prima ancora, al diritto di diventare sé stessi, sviluppare, appunto, la propria personalità e la propria identità.
Il diritto a diventare ed essere sé stessi, quale declinazione del diritto allo sviluppo della personalità, è un diritto inviolabile.
Inviolabile vuol dire che quel diritto non può e non deve subire aggressioni, limitazioni o influenze di qualunque tipo né dallo Stato né dagli altri soggetti privati. Anzi lo Stato non solo deve astenersi dall’interferire in quel diritto ma deve anche prevedere in capo ai privati divieti specifici la cui violazione comporta una sanzione, eventualmente anche penale.
Non si può quindi parlare di “legge bavaglio” o denunciare la mano invisibile di una ingorda lobby gay detentrice di un potere che vuole veder crescere fino a creare una dittatura. Non c’è nessun uomo forte omosessuale o transessuale che muove le redini aspirando a sovvertire l’assetto costituzionale e l’ordine democratico.
Tutti i diritti inviolabili godono di tutela negativa e positiva. La vita, per esempio, è tutelata tanto con il divieto di pena di morte quanto con il reato di omicidio (quindi sia come non ingerenza dello Stato sia come non ingerenza degli altri individui), ugualmente il domicilio, la libertà personale, la riservatezza.
Se è vero, come abbiamo tentato di dimostrare nel corso di queste brevi riflessioni, che una tutela positiva ancora manca, la legge contro l’omofobia non è solo auspicabile, non è solo necessaria ma è davvero urgente.
Perché la libertà di espressione di un gruppo (prevalente o minoritario che sia) non è l’altare su cui può sacrificarsi il diritto allo sviluppo della personalità di ciascun membro della nostra società.
Crediti: theconversation.com
[1] Dossier Viminale 2020. Nel documento si precisa, tra l’altro, che “sui dati relativi al periodo di riferimento (1 agosto 2019 – 31 luglio 2020) incidono le limitazioni e i divieti imposti durante la fase acuta dell’emergenza sanitaria Covid-19 (9 marzo – 3 giugno 2020).”
[2] Report Gay Help Line 2019.
[3] Per completezza, si segnala che è in discussione anche un emendamento per inserire tra i motivi della discriminazione penalmente rilevante anche la disabilità della vittima.
[4] Discorso tenuto l’8/10/2020 in occasione dei Queer Days e disponibile a questo link.
[5] Stando così le cose, infatti, ad esempio se Tizio decide di commettere il reato di estorsione in danno di Caio spinto dal motivo che Caio sia gay e si da dare da lui una somma di denaro dietro la minaccia di rivelare il suo orientamento sessuale contro la sua volontà, spetterebbe al giudice valutare se i motivi a delinquere siano stati abietti (cioè perversi) o futili (cioè mero pretesto per commettere il reato). Qualora egli reputasse l’aggravante non sussistente, la pena massima irrogabile sarebbe quella della reclusione per 10 anni e della multa di 4000€. Diversamente, in caso di approvazione del ddl, il giudice di fronte ad un movente omofobo sarebbe obbligato ad aumentare la pena e potrebbe aumentarla fino alla metà. Nell’esempio sopra riportato la pena potrebbe arrivare a 15 anni di reclusione e 6000€ di multa.
E ancora, nel caso in cui Tizio malmeni Caio perchè transessuale oggi potrebbe incorrere nella pena massima di 3 anni di reclusione; se entrasse in vigore la legge la reclusione potrebbe arrivare 4 anni e 6 mesi.
[6] S. Rodotà, Diritto d’amore, Ed. Laterza, 2014